Caso “mensa dei poveri”, innocenti fino a prova contraria

Processi a furor di popolo: la grave piaga del giudizio per sola indagine in Italia è ancora troppo frequente, troppo pressante ed imponente. Non è possibile in uno stato di diritto trovarsi di fronte ad accanimenti mediatici e giudiziari, anche da non addetti ai lavori, solo per l’avvio di un’indagine.

Ultimo su tutti il caso “Mensa dei poveri”, un processo nato per tangenti e appalti truccati con riferimento alla politica lombarda, in cui, dei poco più di sessanta indagati, oltre cinquanta ne sono usciti assolti perché il fatto non sussiste. È un dato, nulla da commentare nella misura in cui tra i mezzi per un corretto giudizio vi è l’indagine e se tale è utile alla ricostruzione adeguata dei fatti, ben venga; se non fosse per il trattamento riservato a persone ancora in attesa di giudizio. L’associazione indagine-politica ormai scaturisce un pugno di ferro, spesso esagerato, causato da timori di giudizi altrui sull’operato degli addetti ai lavori.
Il vero nodo della questione è l’eco mediatico e il trattamento degli indagati e ciò che scaturisce questa indagine e, nella fattispecie, le ripercussioni e i postumi che eventi del genere lasciano. Non è accettabile pensare che esponenti politici, anche in voga, al momento dell’apertura delle indagini, oggi assolti, abbiano dovuto ridimensionare o accantonare definitivamente le proprie ambizioni politiche e professionali.

È il caso, tra gli altri, di Fabio Altitonante e di Pietro Tatarella, costretti ad una gogna mediatica che, con beneficio del dubbio, ha contribuito ad un trattamento dai peggiori dei criminali, e restrizioni della libertà. Le lacrime durante la lettura della sentenza di uno loro sono disumane, e devono far riflettere. Non è accettabile che oggi, chi assolto perché il fatto non sussiste, non abbia potuto proseguire la propria attività, sentendosi in dovere di abbandonare per “furor di popolo”, perché è giusto così. Giusto per chi?
Lungi da qualsiasi analisi voler ribadire il concetto agnostico, perché non trova applicazione, di dover garantire parità di risonanza della notizia dell’assoluzione tanto quanto quella dell’indagine, ma è chiaro che non si può pensare di far passare la notizia in cavalleria o semplicemente ipotizzare delle scuse, da chi poi? Il trattamento riservato è una concentrazione di errori, di difesa del qualunquismo popolare di cui fanno leva i partiti, e non solo, per avallare una volontà terza che alimenta la gogna politica.

Sarebbe pleonastico in questa sede ribadire che chi sbaglia è giusto che paghi. Spesso, però, si dimentica nell’editoria così come nella comunicazione in ogni sua sfaccettatura, purtroppo conviene così, che quando si pubblica, si scrive o si commenta, a prescindere dal grado di imputazione e dalla gravità della situazione, di fronte si hanno degli esseri umani e che, con accanimenti del genere, si influisce nella sfera privata, gravando su aspetti mentali compromettendo situazioni lavorative, economiche e di altro genere.

È bene ricordare, ora e negli eventi futuri, che la prima repubblica e mani pulite sono passate da ormai parecchio, che chi sbaglia effettivamente paga e deve pagare, ma che le vite umane degli imputati e dei loro cari valgono più di un appello di giustizia di piazza gridato con colpevole anticipo che rischia di non corrispondere a realtà.

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