Arte della scena: Carmelo Bene, un’assenza non assenza

Carmelo Bene, uno dei personaggi più influenti nel teatro del novecento, disse che “amava la voce vellutata”, ma quella voce ora manca a tutti noi. Quella voce “ oggettiva e oggettivata” che sapeva risvegliare in noi echi di lontane armonie elleniche. Genio o mistificatore? Questa è la domanda che il pubblico si pose, davanti ad una recitazione innovativa, alle scenografie barocche di cartone, cercando di comprendere assordanti silenzi e suoni quasi insopportabili. Carmelo Bene si definì “allievo di se stesso” perché fu un ricercatore assoluto di un nuovo stilema. Una peculiarità unica che si esprimeva con schemi-non schemi. Egli può essere definito Attore Artifex, cioè attore artefice ed egli stesso disse di sé, che era “una macchina teatrale”, in quanto si assumeva i ruoli di attore, autore, regista scenografo, costumista. Carmelo Bene, nel voler raggiungere un nuovo modo di affrontare i testi e superare quello che lui chiamava con disprezzo il teatro del “già detto,” creò una “scrittura scenica” cioè il “teatro del dire”, che si contrappose al naturalismo e alla drammaturgia borghese. Quello che per molti attori è il traguardo da raggiungere, cioè l’immedesimazione nel personaggio, fu combattuto da Carmelo Bene, che distrusse l’Io sulla scena, a favore del soggetto – attore. Infatti egli affermava che l’attore nelle sua accezione comune semplicemente ripeteva a memoria ciò che altri avevano scritto. Lui definiva quella classica visione del teatro mero intrattenimento, chiacchiere nel foyer, luogo di convegni. Egli arriva al paradosso di affermare che il teatro non sia mai esistito e che nessuno abbia mai scritto cosa esso sia veramente. La parola “teatro” indica un luogo architettonico, di pietra di legno, di stucchi ma non si può spiegare ciò che esso contiene. Ma per il teatro di Carmelo Bene non si può parlare di “influenze “ o condizionamenti, perché la suo opera è unica, senza termini di paragone. Nel teatro di Carmelo Bene le parti dialogate sono trasformate in monologhi, cosi da perdere sia il senso del dialogo che una direzione; ad esempio un grido scaraventato con grande impeto anziché spaventare si autospaventa, dal momento che è come se trovasse un muro che gettasse indietro l’urlo al mittente. Nell’opera “Riccardo III” di W.Shakespeare, Carmelo Bene sputa contro lo specchio pensando o facendo credere al pubblico che in realtà sia stato sputato. Ci sono alcuni morti, che fanno più rumore dei vivi, Carmelo Bene è uno di questi. E’ un non-vivo che ci indica l’infinito.

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