Carla Vitantonio, cooperante e autrice di “Myanmar Swing”, è stata tra i protagonisti dell’evento “AMIStaDeS Webinar On World (WOW)”, moderato moderati da Irene Piccolo (Presidente, AMIStaDeS).
Con lei per fare il punto della situazione in Myanmar, a oltre un anno dal golpe che ha visto il cambio di regime nel Paese.
Dott.ssa Vitantonio, lei ha vissuto in Myanmar e ha toccato con mano la situazione nel Paese. Ci può raccontare la sua esperienza?
Al tempo in cui mi trasferii in Birmania, estate 2016, il paese aveva già perso l’entusiasmo che tutti avevamo visto in televisione nei giorni della campagna elettorale dell’NLD. Si stava lavorando, Aun San Su Kyi incominciava a fare i conti con la differenza che c’è tra essere una leader carismatica e avere in mano un paese, dovendone mettere a posto leggi e pratiche. Guardare le persone con i loro telefonini era una prova lampante di quanto velocemente ci si abitui alla libertà. Eppure, in quelle stesse strade dove i giovani passeggiavano abbracciati dietro gli ombrelli (che li riparavano contemporaneamente dal sole e dagli sguardi indiscreti), avevano ancora i lucchetti che servivano a chiudere per il coprifuoco, e quegli stessi giovani erano figli di chi era stato probabilmente torturato nell’88. Forse ricordavano gli eventi del 2007 e del 2012. La Birmania era, ed è, un luogo di contraddizioni, un paese ricchissimo e, al tempo stesso, il luogo in cui intere fasce di popolazione perdono ciclicamente la casa quando arriva un uragano. Un luogo dove le elezioni si erano vinte grazie a Facebook, e dove le minoranze musulmane dovevano stare attente a come si comportavano ( e non parlo solo dei Rohingya). Nei miei anni birmani ho vissuto lo scandalo internazionale legato al genocidio che si consumava in Rakhine, e il terribile silenzio che la stessa comunità internazionale manteneva rispetto a quanto contemporaneamente accadeva in Kachin. Insomma, ci ho scritto un libro di trecento pagine, sarebbe impossibile ridurre in questa sede.
Durante l’evento organizzato da AMIStaDeS una frase mi ha colpito. Infatti, lei ha detto che non esiste la Birmania. Che cosa vuole intendere?
Quando dico che la Birmania non esiste, mi riferisco all’idea, tutta eurocentrica, dello stato-nazione, una unità di popolo, cultura e territorio che tendiamo a credere universale, mentre si tratta quasi esclusivamente della nostra esperienza Europea (esportata poi negli altri paesi del Nord Globale). Sebbene ci siano in Asia esempi storici di stato-nazione: si pensi alla Corea, paradossalmente divisa in due a tavolino dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, che ancora si nutre di un’idea di unità (우리 하나 – siamo uno) che ha portato persino alla presenza, in Repubblica di Corea, di un Ministero dell’Unificazione. Tuttavia non è il caso della Birmania. Quella che noi chiamiamo Birmania è un territorio identificato come tale dagli inglesi durante la colonia e, in realtà, composto di elementi differenti, alcuni con storia e tradizioni antichissime (l’ultimo censimento indica 137 etnie) che spesso danno priorità a un’identità etnica rispetto all’appartenenza allo stato nazione. All’interno dell’Unione ci sono, per esempio, sette Stati (Kachin, Shan, Kayah, Kayin, Mon, Rakhine, Chin) che contano con un’armata propria e con un vero e proprio sistema di governo parallelo. Di questa tensione tra l’unica Birmania e le tendenze indipendentiste di molte delle etnie, oltre che del conflitto sul controllo delle moltissime risorse, si è alimentata la guerra dal 48 in poi. Non possiamo, dunque, guardare alla Birmania dalla lente eurocentrica dello stato-nazione, commetteremmo lo stesso errore che da decenni commettiamo in Afghanistan.
Nel suo libro, “Myanmar Swing”, scrive che la Birmania è l’amico più sporco della Corea del Nord. Perché?
Come dico ampiamente nel libro, ci sono dati storici sulla lunga amicizia tra Myanmar e DPRK. La stessa capitale Naypyitaw è stata costruita sulla base di consulenze operate da specialisti nordcoreani in ingegneria e sicurezza. Infatti, Naypyitaw sembra a volte una Pyongyang tropicale (anche se purtroppo non ha né la vita brulicante né il fascino brutalista di Pyongyang). Molti altri sono i legami tra Pyongyang e Nayipyitaw, spesso basati su accordi di formazione e/o fornitura militare. Al tempo in cui vivevo in Birmania era abbastanza nota la presenza di trainer coreani in una base militare nel centrosud del paese. Tuttavia, quando la Birmania ha cominciato ad aprire all’occidente e ai paesi “democratici”, ha dovuto necessariamente ripulirsi di alcuni dei suoi legami meno accettabili, e quello con la DPRK è il primo, visto che la Corea è il paese più sanzionato del mondo. Tatmadaw cercò, nei primi anni di governo semidemocratico, di agire con un basso profilo, ma ad un certo punto le Nazioni Unite chiesero ad Aun San Su Kyi di prendere posizione, e lei dichiarò che ogni relazione con Pyongyang era terminata. Personalmente non ci ho mai creduto fino in fondo.