“Far storia vuol dire gettare ponti tra il passato e il presente, tener d’occhio ambo le sponde e agire su entrambe”. Durante la mia vita di studente ho provato tante volte a dare un senso a questa frase del romanzo best seller di Bernhard Schlink A voce alta. Come spesso accade con le letture che richiedono un minimo (almeno per gli standard dello scrivente, non so per voi) di impegno, il problema non è stato tanto comprendere la lettera del testo, quanto capire il concetto che c’era dietro, farlo proprio ed usarlo per leggere la realtà anche una volta riposto il libro sullo scaffale. Ecco, se c’è una lettura che ci aiuta a capire cosa significhi agire su entrambe le sponde della storia, questa è Caporetto Management. Dalla disfatta alla vittoria: la lezione di Armando Diaz per i manager moderni, ultimo libro di Antonio Iannamorelli per Lupi Editore.
Lobbista e comunicatore, classe 1977, Iannamorelli ha recentemente presentato il suo libro a Tivoli (RM) nell’ambito di un aperitivo letterario organizzato dai “giovani Lions” dei Leo Club Tivoli Host e Palestrina-Colleferro, evento a scopo benefico in favore della Casa Ronald Roma Palidoro. Per l’occasione, ha discusso dei temi del libro insieme all’On. Alessandro Battilocchio, Deputato della Repubblica, in un incontro moderato dal nostro editore Alessandro Verrelli.
E veniamo quindi alle “sponde della storia” che questo libro ripercorre. Da un lato, l’Italia di un secolo fa, all’indomani di quella che sarebbe diventata la disfatta per antonomasia: la battaglia di Caporetto. Dall’altro lato, l’Italia di oggi, che si affaccia, forse, all’indomani di una crisi economica (ma non solo) che a buon titolo facciamo fatica a considerare superata. Il ponte che unisce queste due rive è formato dall’esperienza di studio e professionale dell’autore, che si tuffa in una ricerca storiografica per immergersi nel funzionamento della macchina bellica di cento anni fa, ma con gli occhi di chi conosce bene i meccanismi che regolano il mondo economico, politico ed istituzionale di oggi, per cercare di capire quali furono le ragioni che portano alla famigerata “disfatta” e quali le strategie attraverso cui la classe dirigente italiana seppe, in maniera sorprendente, riprendersi. Un’analisi che inevitabilmente passa dai due personaggi che in qualche modo incarnano queste due fasi cruciali del conflitto: Luigi Cadorna ed Armando Diaz. Due uomini che, sebbene sostanzialmente coetanei (li separava poco più di un decennio) presentano due visioni totalmente opposte. Da un lato, quel Cadorna che sembra essere quasi vittima dell’eccessiva rigidità dei codici militari, che sembra mettere la casta ed il grado prima della persona, e a cui incredibilmente, nota l’autore con una vena di ironia, verrà riservato un trattamento incredibilmente più favorevole del suo successore nella toponomastica dell’Italia post conflitto (“a Cadorna viene intitolata una grande stazione di Milano, a Diaz vengono intitolate sempre delle vie laterali”). Dall’altro, un Generale Diaz che sembra aver capito anzitempo due lezioni assolutamente attuali: che il fattore umano, il benessere psico-fisico, la motivazione degli individui è fondamentale per la riuscita di ogni impresa; e che quello che facciamo, la nostra opera, è importante tanto quanto la narrazione che di essa riusciamo a trasmettere.
Del resto, come mai proprio la battaglia di Caporetto è diventata sinonimo di sconfitta, malgrado nella Grande Guerra troviamo capitolazioni ben più gravi e sanguinose? La risposta, secondo l’autore, è da cercarsi non nei suoi effetti, ma nelle cause, nella tragica gestione dell’evento che ne amplificò aspetti collaterali rilevanti nell’opinione pubblica di allora, e tali da far crollare la fiducia nella classe dirigente. Uno su tutti, l’aver attribuito la sconfitta alla vigliaccheria dei soldati italiani. Un pessimo esempio di comunicazione di crisi, che anziché rassicurare, amplifica la insicurezze e la paura di un’Italia già provata.
Sul terreno di quella sconfitta, però, si innestano le nuove potenzialità di quello che l’autore definisce il “team Diaz”: è solo dopo Caporetto che si comprende l’importanza cruciale della comunicazione di guerra (o forse potremmo dire, della propaganda) come strumento utile a migliorare il morale delle truppe, delle popolazioni che vivevano a ridosso del fronte e di quelle più lontane, che invece attendevano il ritorno dei soldati. Un compito che venne affidato perlopiù a ufficiali di complemento che nella vita civile svolgevano attività intellettuali: nomi come Ojetti, Calamandrei, Soffici, giovani poco più che trentenni ma dotati di capacità che andavano ben oltre il campo di battaglia. Che comprendono, ad esempio, la potenza della comunicazione visiva: a quei tempi era difficilissimo avvicinarsi ad un campo di battaglia con una macchina fotografica a causa di una pesante censura preventiva. Diaz, invece, permette a tutti di fare foto del fronte, ed anziché censurarle preventivamente, le fa acquistare in blocco, “condividendo” le migliori attraverso mostre itineranti, esattamente come faremmo noi oggi su Instagram, che non a caso è il social in maggior crescita. E’ attraverso le immagini che Diaz riesce a costruire da zero una narrazione degli aggrediti, facendo passare l’Italia da carnefice a vittima, e cavalcando quel desiderio, tanto pressante in quegli anni, di porre fine al conflitto. Una fine che passava da due alternative: la resa o la vittoria. Mostrando all’opinione pubblica attraverso la crudezza delle immagini e dei racconti dei sopravvissuti le conseguenze della resa al nemico, Diaz riuscì a fomentare l’opinione pubblica verso la vittoria. Paradigmatico, in questo senso, è il ruolo che ebbe la donna: se prima è lei che, nell’immaginario comune, invita il soldato alla diserzione, dopo Caporetto diventa la figura da proteggere, e che spinge il soldato a cacciare via l’invasore. Diventa insomma un potentissimo elemento di resilienza all’interno della narrazione di quegli anni.
Ed è lo stesso autore a chiarire che quei “manager moderni” a cui egli vuole trasmettere la lezione di Armando Diaz non sono soltanto i CEO con la scrivania all’ultimo piano. In un Paese come il nostro, in cui la piccola e media impresa costituisce ancora l’architrave del tessuto economico, è cruciale che ogni azienda, anche quella a conduzione familiare, si orienti verso nuovi approcci dell’attività professionale, che mettano sullo stesso piano la qualità del prodotto e quella della comunicazione, l’esperienza pregressa e le qualità acquisite ed innate. Oggi è il momento dei fortemente specializzati, non dei formalmente certificati. Perfino i cannoni, ad un certo punto, si arrendono davanti all’incontestabile realtà che ogni guerra non si combatte mai solamente al fronte. E questo lo aveva capito anche Armando Diaz. Cosi come forse aveva intuito che i fatti, da soli, possono anche morire. E’ la loro narrazione che, prima o poi, diventerà storia.