Campagna europee 2024: nel segno del nome

La campagna elettorale è entrata nel vivo, tra candidature annunciate (Vannacci in primis), nate in itinere (Salis) e rese note in extremis (Sgarbi). Una campagna elettorale “nel segno del nome”, da Giorgia a Elly, passando per Vannacci detto “il Generale” sino ad arrivare a Cateno De Luca detto “Libertà”.

Ma non solo questo. Prima di arrivare alla presentazione delle liste, e quindi all’elenco dei nomi, c’è stata un’altra diatriba inerente il nome nel simbolo. Tutto è nato all’interno del Partito Democratico, dove la segretaria Schlein ha proposto alla direzione di inserire il suo nome all’interno del simbolo del partito. Una proposta che ha letteralmente spaccato il partito, e che alla fine è stata prontamente ritirata.

E qui arrivano i “Meloni boys” che hanno additato questa scelta come “mancanza di coraggio” o addirittura di “vergogna”. Ma, evidentemente, i “Meloni boys” non hanno ben in mente la storia.

Solitamente il nome nel simbolo del partito viene aggiunto da chi di quel partito n’è stato fondatore. La Meloni è un esempio, come lo è stato e continua a essere Berlusconi, Calenda, Di Maio. 

Le eccezioni vengono rappresentante dalla Lega, tendenzialmente, e dal PD. Ma se la Lega lo ha inserito sin dal principio, prima Bossi adesso Salvini, per il PD è successo una sola volta nel 2008 con Veltroni, segretario e fondatore, e da lì in poi non è più accaduto.

La domanda vien da sé: perché? Perché il segretario del PD è pro tempore, lo abbiamo visto più volte, e sarebbe totalmente fuori contesto inserire il nome se, ed è una possibilità, subito dopo elezioni il segretario cessa le sue funzioni. 

Parliamo di una polemica sterile e presuntuosa. 

La scelta della Schlein è stata la migliore che potesse prendere. Conosciamo bene gli equilibri non proprio solidi del PD, e fomentare possibili squilibri alla vigilia delle elezioni europee sarebbe stato assai controproducente. 

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