Black lives matter

“I can’t breathe”, il “non riesco a respirare” pronunciato da George Floyd è diventato il grido di battaglia di un’intera comunità contro la polizia.

Quello che il 25 maggio è successo a Minneapolis, nello stato del Minnesota, ha riacceso la fiamma di un conflitto storico, mai superato, che mostra la profonde contraddizioni degli Stati Uniti d’America.

Floyd non è solo vittima di un abuso di potere trasformato in omicidio, Floyd è diventato il simbolo di una lotta al razzismo che, in questi giorni, sta assumendo connotati sempre più violenti.

È la rivolta degli ultimi, dei dimenticati, di quelli che troppo spesso hanno diritti invisibili. La ferita è profonda e non smetterà di sanguinare fino a quando questa insurrezione non si trasformerà in una rivoluzione culturale.

Perché George Floyd è solo l’ultima vittima di una lunga lista di afroamericani uccisi da poliziotti bianchi, che mal celano il problema del razzismo dietro una goffa “questione di ordine pubblico”. Con questo non si vuole affermare che la polizia USA sia razzista, o che lo sia la maggior parte degli statunitensi, ma si vuole rimarcare che fino a quando uomini continueranno a morire per il colore della loro pelle, schiacciati dalla mano, o dal ginocchio, di chi invece dovrebbe garantirne la sicurezza, la battaglia per i diritti e per l’uguaglianza non avrà fine.

Il video della morte di Floyd ha fatto il giro del mondo, tutti noi l’abbiamo visto implorare “please, please, please” mentre il suo boia continuava a togliergli l’ossigeno per nove terrificanti minuti.

Il disprezzo per il diverso, l’odio, il razzismo sono temi che troppo spesso vengono sottovalutati ma che meritano, ancora, una profonda riflessione. E se la risposta della comunità afroamericana è stata così violenta ci dovremmo interrogare sulle ragioni. Sia chiaro, non si vuole giustificare saccheggi, incendi o uccisioni, ma si vuol spingere a riflettere su come oggi la società in cui viviamo e sul perché ancora, sui giornali, ci troviamo a raccontare storie così dolorose.

Nei giorni scorsi, sui social, è imperversato l’hashtag “Black lives matter”,quasi a voler rimarcare un concetto che all’apparenza dovrebbe essere scontato. Le vite nere contano, veramente c’è bisogno di ribadirlo?

Eppure abbiamo visto un uomo implorare pietà, assumere consapevolezza di quanto stava accadendo fino al momento in cui la vita lo ha abbandonato. Nel mondo si può morire perché nati con il colore della pelle “sbagliato”. Nel mondo, si può morire perché pestati in carcere dopo un arresto. Nel mondo, per alcuni, non tutte le vite hanno lo stesso valore.

Allora, quando l’ingiustizia torna a colpire così violenta, è giusto combattere, civilmente, per i diritti e l’uguaglianza, facendo una precisa scelta di campo, schierandosi, sempre, dalla parte di chi la violenza e i soprusi è costretto a subirli.

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