Bettino Craxi, vent’anni dopo

Cade oggi il ventesimo anniversario della scomparsa del segretario PSI, morto ad Hammamet il 19 gennaio 2000

Hanno creato un clima infame. A vent’anni esatti dalla morte di Benedetto “Bettino” Craxi tornano alla ribalta le polemiche che, da sempre, avvolgono la figura dello storico leader del Partito Socialista Italiano.

Dall’elezione a segretario all’auto-esilio in Tunisia, passando per la nomina a presidente del Consiglio e la conseguente caduta per mano della magistratura milanese: Craxi è stato costantemente sotto la lente d’ingrandimento dell’opinione pubblica, difeso da una buona fetta di militanti e additato da elettori ed ex compagni di pensiero come responsabile delle malefatte del cosmo politico italiano che fu.

A distanza di anni è opportuno riflettere sugli effetti provocati dal crollo del sistema “Prima Repubblica” che, in tutta onestà, ha visto in Craxi una sorta di capro espiatorio. I suoi celebri discorsi alla Camera dei Deputati nel luglio del 1992 e nell’aprile del 1993 – l’ultimo – testimoniano quanto l’intero mondo della politica, socialisti inclusi, fosse a conoscenza delle pratiche illegali inerenti al finanziamento ai partiti e che, nonostante la colpevolezza di molte fazioni, fu il solo PSI e il suo leader in particolare a finire nel mirino del pool di Mani pulite.

Il quesito volutamente provocatorio che ci si pone è il seguente: il “sacrificio” di Craxi ha prodotto un miglioramento nell’attuale panorama politico? La sua uscita di scena post-Tangentopoli ha in realtà condotto l’Italia in una dimensione tremendamente negativa dal punto di vista istituzionale. Dapprima il berlusconismo – paradossalmente figlio legittimo del rapporto di amicizia che legava il segretario socialista al Cavaliere – seguito dall’improvvisazione dell’odierna Terza Repubblica in cui un eccellente programma di politica estera, tanto cara a Craxi, rappresenta una vera e propria chimera.

Tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire e che tutti sanno del resto è che non è solo una questione di preparazione e dialettica che distingue lo statista dai rappresentanti della classe politica attuale, ma anche e soprattutto una particolare forma di consapevolezza dei propri mezzi. In molti tendono a confondere il sovranismo dei nostri giorni con l’intransigenza di Craxi in merito alla vicenda di Sigonella nel 1985: la forza dimostrata in quel frangente (così come in campo socio-economico) non può finire nel frullatore delle azioni e delle idee in compagnia delle teorie nazionaliste 3.0, prive di qualsiasi fondamento ed obiettivo, se non quello propagandistico.

La propaganda, per l’appunto. Quella anti-craxiana che distrusse un progetto politico – che, tra le altre cose, collocò l’Italia nel club delle potenze economiche mondiali – e che riecheggia ancora nel tintinnio delle monetine lanciate all’esterno dell’hotel Raphael. Oltre alle sentenze che pendevano sulla sua testa, la metamorfosi che applicò teoricamente e praticamente alla sinistra del tempo fu, con ogni probabilità, la causa dello strappo con chi condivideva la sua stessa provenienza e che archiviò in un dimenticatoio quanto di buono fatto in ottica prettamente politica. Coloro che si ribellarono al regime imposto da Antonio Salazar in Portogallo ne sanno qualcosa.

Sia chiaro: l’intento non è riabilitare la figura di Craxi, quanto evitare di spedire nell’oblio l’unico politico italiano con una visione internazionale, capace di trasformare in realtà il concetto di “modernizzazione”, indipendentemente dalle vicende giudiziarie che l’hanno visto coinvolto. È doveroso che le nuove generazioni sappiano chi sia stato il Craxi politico – nelle interviste televisive scambiato goffamente per un influencer o un marchio di patatine – nella speranza che possano abbandonare lo squallido concetto di politica da bar-stadio in virtù della passione per la res publica, la stessa che ha caratterizzato l’intera vita del Ghino di Tacco di origini milanesi.

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