Attraversare. Il libro di Davide Enia, “Appunti per un naufragio” (Sellerio, 2017) si fonda tutto su questo verbo impossibile ed eroico, spirituale e insieme materico. Attraversare il mare, i confini, le proprie barriere personali e persino le forme del romanzo tradizionale che, assumendo la forma sui generis dell’”appunto polifonico”, si assume l’arduo compito di raccontare l’Odissea dei corpi in transito nel Mediterraneo attraverso la lente deformante della storia biografica dell’autore: perfetta allegoria di una frontiera che, prima di essere un confine fisico da superare, è il muro frapposto tra ciò che siamo e quello che vorremo essere, tra le nostre emozioni e gli eventi che ci aggrediscono inaspettati. Una frontiera che nel libro di Enia prende la forma di un continuo gioco di ostacoli, talvolta più metafisici che reali: come la bottiglia d’acqua frapposta fra intervistante e intervistato, rete di sicurezza mentale per proteggersi, per schermarsi dalla violenza delle parole e del ricordo.
La stessa rete che separa Davide da suo padre, medico in pensione e fotografo di dettagli minuscoli e immensi, il quale decide di accompagnarlo attraverso il suo viaggio a Lampedusa, insegnandoci che comunicare lo si può fare in tanti modi e che, a volte, raggiungere l’altro vuol dire seguirlo in silenzio attraverso la sua vita, nonostante la diversità di carattere e di percezioni. Attraversare la frontiera infatti, nel nostro quotidiano, vuol dire superare il silenzio che si propaga da una cornetta telefonica, abbattere la lontananza attraverso uno sguardo, un cenno, o semplicemente farsi ombra a vicenda attraverso le proprie cicatrici, come fanno l’albero e il rudere nella foto in bianco e nero che Davide osserva con occhi imbevuti di commozione.
A volte oltrepassare la frontiera vuol dire passare attraverso l’impossibile contraltare della malattia che divora il corpo; come quella dello zio Beppe, lontano dall’isola ma vicino al cuore, presente attraverso le continue telefonate, ma sopratutto attraverso i ricordi; gli stessi da cui l’autore inizia a costruire, traendo dalla dimensione intima del suo vissuto la forza per affrontare un racconto di dolore universale, che fonde in un unicum inestricabile le prospettive di chi viene soccorso e di chi invece, deve soccorrere.
E così i 368 morti del naufragio del 2013, diventano la paura di Paola, che nel momento del bisogno vacilla tra paralisi e voglia di agire; diventano le braccia dell’“enorme” sommozzatore costretto a scegliere chi salvare basandosi sul numero di metri d’acqua che lo separano dai corpi; ma anche le braccia di coloro che avvolgono in una coperta termica le donne e gli uomini ustionati e intorpiditi dal gelo, che rianimano instancabilmente corpi apparentemente privi di vita, con la forza disperata di chi non accetta di arrendersi di fronte al massacro.
Nell’esperienza letteraria di Enia, l’arte si fa esorcizzazione, diventa esperienza catartica, verità impronunciabile e pronunciata che, facendosi immagine, restituisce il peso delle parole ascoltate sul campo, ridando la voce e la dignità a chi l’ha persa, abbattendo alla maniera d’un cantastorie, la parete invisibile che separa il pubblico dall’autore.
Attraverso le pagine di questi Appunti, il dramma infatti parla da sé, con l’immediatezza cruda, quasi calviniana, di un reportage dell’anima, lasciando che le singole storie, senza essere forzate, “vengano incontro” a chi le sa accogliere; a tutti coloro che hanno l’empatia del “medico all’antica”, il quale non si limita a interrogare il paziente sui sintomi o ad osservare un monitor, ma si sofferma ad auscultare i corpi, ad osservarli, pur restando al di là di quella linea sottile che permette di curare ed accudire, senza violare lo strazio che ognuno di essi si porta dentro. Un po’ come fa Vincenzo, custode e giardiniere del camposanto, che per ridonare l’intimità violata a una ragazza perita fra le onde, decide di seppellirla all’ombra dolce di un oleandro, perché le foglie la proteggano da tutto “dal sole e dall’inverno, dal maestrale e dagli sguardi cattivi.”
“You are my father” dice un naufrago al suo salvatore, come a dire che non c’è legame più forte di quello intessuto nel dolore, costruito attraverso il disinteressato coraggio di chi affronta una guerra interiore e corre il rischio di aiutare, anche solo per godere della gioia vissuta nel toccare terra dopo chilometri di onde, le danze a mani sollevate, i giochi e le canzoni che si intrecciano alle preghiere rivolte alla Mecca. Dopo la notte del naufragio, il sole della salvezza.