Un’eredità che ci ha lasciato la pandemia è senza dubbio una diversa percezione della vita lavorativa. Il Dipartimento del Lavoro degli Stati Uniti ha comunicato recentemente che ad agosto 2022 è stato raggiunto il valore record di 4,6 milioni di americani che hanno lasciato volontariamente il proprio posto, per un totale di oltre 50 milioni in un anno. Il dato è in decrescita , ma rimane altissimo. Sulla stessa scia l’Ue. In Italia secondo unostudio di Randstad il 29% dei lavoratori starebbe cercando attivamente un nuovo impiego: è il terzo valore più alto a livello globale. Ma se la Great Resignation è l’incubo degli HR odierni, per gli altri può essere un’opportunità per capire dove sta andando il mondo. Con questo spirito mi sono messo in viaggio in Vietnam e Cambogia con amici. Oltre all’interesse per il mondo asiatico infatti, ho scoperto che l’Indocina è una delle mete preferite dei backpackers, viaggiatori incalliti che, zaino in spalla, spesso abbandonano lavoro e stile di vita occidentale per qualche mese. O per tutta la vita.
Il primo incontro con questo panel avviene nello scalo di Singapore. Sono Nicol e Marco, una coppia ventenne italiani che lavorano saltuariamente come musicisti a Berlino ormai da 6 anni. “Mantenerci all’estero è più semplice, lo sai? Lo Stato aiuta chi non ha entrate stabili: ci danno 500 euro al mese solo per pagarci l’affitto, oltre alla disoccupazione”, mi confida Nicol. Lei casualmente viene da una città a fianco alla mia, nella profonda periferia depressa a sud di Roma, e so bene che lì o accetti di scaldar panini l’estate, o ti devi spostare. “Ci siamo incontrati e abbiamo deciso di realizzare noi stessi, anche a costo di rinunciare a qualcosa. E poi appena abbiamo la possibilità ci lanciamo in qualche viaggio in Asia. Budget 5 euro al giorno ovviamente. Ma qui c’è una parte di noi e prima o poi troveremo il modo di stabilirci. Alla fine siamo tutti alla ricerca della felicità, no?”. E non faccio fatica a crederle che sia più felice con cinque euro in tasca e la sua Navarra quattro/quarti lì, spersa per il mondo, che in uno squallido bar di provincia a scaldar panini.
Arrivati ad Hanoi ci ritroviamo in un’altra epoca: i venditori di ortaggi che dalla campagna arrivano in bici, i cappelli a cono, lo street food consumato in tavoli con altra gente. E qui che ci riconosce dall’idioma un’altra italiana, Cinzia. Padovana, lavora nell’azienda di famiglia che “produce le migliori mattonelle da bagno dal 1960”, dice con orgoglio. Eppure non è contenta: molla tutto e comincia a vagare con il suo zaino portafortuna, gestendo i suoi risparmi e cercando lavoretti per arrotondare. Alla domanda se lo avrebbe fatto anche se l’azienda non fosse stata così permissiva, la risposta mi ha sorpreso: “Non ho mai dovuto cercarmi un’occupazione, questo aiuta nella vita, lo ammetto. E so benissimo che non è facile trovare una stabilità nel nostro paese oggi. Ma sentivo che mi mancava qualcosa, mi sembrava di non utilizzare bene la mia vita. Mi sentivo come la rana in pentola che non si accorge che l’acqua sta bollendo sotto di lei. Così mi sono presa un congedo lungo per girarmi tutta l’Asia, anche a rischio di perdere il lavoro: presto o tardi se le cose non ci piacciono, si lascia. Soprattutto noi donne siamo fatte così”. È solo malcontento per il proprio lavoro? Se così fosse basterebbe cercarne un altro. No, è qualcosa di più profondo. Dio solo sa quanti giovani non trovano un’occupazione, e tutti vorrebbero sentirsi volentieri come una rana bollita. Con questi interrogativi salpiamo da Chau Doc con un battello che deve risalire il Mekong verso la Cambogia, come un novello capitano Willard.
“Ci hanno fregato, ti dico”.
“Ma no, era già arrivata da un botto”.
Sul battello troviamo altri tre ventenni italiani intenti a decidere se, dalla macchina che hanno rivenduto al porto dopo averla presa ad Hanoi, hanno ottenuto una cifra onesta. Si fa presto a chiacchierare noi italiani. E così mi faccio raccontare la loro storia, iniziata quando hanno deciso di lasciare il loro lavoro a Terni (rispettivamente barista, impiegato e commesso). E proseguita quando hanno investito i loro risparmi in un viaggio di sola andata per il Sud-Est asiatico. “Non ci piaceva l’idea di darci una data di ritorno. La decideremo quando sarà il momento”. Ma il momento non sembra affatto arrivato, se sono già quasi tre mesi su strada e non hanno fatto che la metà del percorso che, tra deviazioni e fuoripista, si sono riproposti. Alla fine i rumorosi locali di Phnom Penh sono sempre quelli, sicché è facile rincontrarsi e, tra una bevuta e l’altra, gli domando qualcosa di più personale: quali prospettive di vita, quali speranze hanno per il futuro tra dieci anni vivendo così. “Mo ci siamo, chi lo sa dove saremo tra dieci minuti?”, mi fa Alessandro, che ha deposto la cravatta da impiegato per le camicie di cotone e collanoni in rattan alla Pechino Express. “Siamo tutti alla rincorsa di qualcosa, caricati a mille per non raggiungere nulla. Passavo giornate in video riunioni e non sapevo più nemmeno il perché. Tutti a corre dietro a cose virtuali, irreali. Questo casino intorno a noi, questa è la realtà”.
La Great Resignation terminerà, sono i dati a dirlo. Ma cosa rimarrà di questo periodo? I critici diranno solo una generazione di egoisti. Gli ottimisti, una maggiore consapevolezza delle proprie aspirazioni di vita. “Questo mondo va a sbattere prima o poi”, chiosa Lucìa, una giovane psicologa di Saragozza con tanti dubbi sul suo futuro, “è l’Apocalisse della nostra generazione: oltre a produrre, e a ostentare quello che abbiamo sui social, quanto ci fermiamo a ragionare su di noi? Qui abbiamo il tempo per farlo”. Forse sta tutto qui il nocciolo. Il Covid ci ha donato tanto tempo libero per fare domande a noi stessi. E non sempre la risposta deve o può piacerci.
Nella baraonda del Capodanno khmer che stava per iniziare, delle ragazze bendate cercavano di rompere le pignatte tese sulla strada, come si fa da quelle parti in segno di buon augurio. In quel mondo, immutato da secoli, la vita si misura ancora nelle piccole cose. E ho sentito che lì, in quel momento, c’era della realtà.