America non torna più: intervista a Giulio Perrone

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America. Per alcuni autori la si trova stampata da sempre negli occhi delle persone, persino prima di vederla; per altri «è stata appena intravista» o «sarebbe stato meglio ignorarla». Per Giulio Perrone, America, che incarnava tanto la libertà quanto la gioventù, non torna più. Il fatto stesso che se ne parli – e se ne scriva – è indice della verità più profonda dell’opera: l’eredità più profonda sono le storie che ci vengono tramandate. 

In un recente articolo per Vanity Fair ha spiegato «come si racconta un padre che non c’è più», partendo dai primi due tentativi falliti e giungendo, solo dopo molto tempo, alla conclusione che l’unico modo per farlo è partire proprio da quell’eredità nascosta, da quel porto sepolto, nel quale la tradizione orale è il testamento umano da cui (ri)partire. Lei pensa che questo libro abbia finalmente messo la parola «fine» al percorso di “autoanalisi” che aveva cominciato con quelle pagine anacronistiche di «quel ragazzo che non aveva saputo affrontare fino in fondo il dolore»?

Sicuramente penso di averlo affrontato nel modo in cui era possibile farlo; nel momento in cui scrivi un libro, che però deve essere anche pubblicato, devi comunque pensare al lettore affinché si possa creare un legame. Le prime due volte stavo scrivendo qualcosa che aveva una strada unica: la conclusione era persino quella di smettere di provare a farlo. Sviare con il riso non è un modo per non affrontare il dolore poiché anche quello faceva parte del nostro legame.

America non torna più è un titolo piuttosto evocativo. Leggendo si ha come l’impressione che, non solo le storie di Pelé e Falcão non possano più tornare ma anche quelle delle VHS dall’edicolante e le partite di calcetto al parco, come se l’era di Internet avesse trasformato in anacronistico sia la Roma degli anni Sessanta, sia quella degli anni Novanta. Non teme che quella tradizione orale, fortemente impressa nella sua memoria e divenuta lascito, scompaia in un mondo meno attento alle storie e alla condivisione e più alle stories e agli share?

Sicuramente la differenza è sostanziale anche perché, sia la mia storia che quella di mio padre condividono l’assenza di Internet, persino il cellulare non era così stringente come oggi, ma questo fa anche parte dei percorsi. Dopotutto è rischioso guardare al passato in questo modo, rischiando di vederla unicamente in modo nostalgico. Ciò che cambia è il mezzo ma le emozioni che vengono veicolate sono sempre le medesime.

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