America, dov’è finita la libertà di stampa?

Ultimamente il web è impazzito alla notizia dell’account twitter del magnate Donald Trump bannato. Notizia alquanto sconcertante, dato che il presidente ormai uscente si è sempre permesso di condividere la qualunque sui suoi profili social e non ci è stato mai alcun provvedimento. Analizziamo il perché…

6 gennaio 2021, assalto al Capital Hill – Washington, Stati Uniti. Scopo: difendere la democrazia americana di Trump.

Si sostiene che sia stato proprio il presidente uscente ad incitare l’insurrezione al Campidoglio attraverso i suoi comizi sui vari canali social, in particolare su Twitter, Facebook e Instagram. Questo ha costretto Zuckemberg a chiudere per almeno 24h le sue pagine social per placare il rischio di violenza in piazza dopo la ratifica della vittoria della “vera” democrazia di Biden e garantire, così, il passaggio di potere quanto più pacifico possibile.

Ma la domanda fondamentale da porsi è: si può applicare la regola della censura della libertà di stampa dei quotidiani anche sulle piattaforme social? Essa, come scelta editoriale non interamente condivisa ma nel pieno diritto di una testata giornalistica, può essere paragonata o addirittura equiparata ai “termini di servizio” da rispettare relativi alle varie piattaforme. Perché effettivamente nella Costituzione americana [1]non c’è una vera e propria legge sulla censura e sulla libertà di stampa e di espressione, ma si fa riferimento al primo emendamento:

Il Congresso non potrà fare alcuna legge che stabilisca una religione di Stato o che proibisca il libero esercizio di una religione; o che limiti la libertà di parola o di stampa; o il diritto del popolo di riunirsi pacificamente, e di rivolgere petizioni al governo per la riparazione di torti.

In esso, viene messo in risalto il rispetto e la libertà di religione, di conseguenza tale libertà è stata estesa come diritto di parola e di espressione, purchè non si oltrepassi il limite del lecito[2] e del volgare. Dunque, questo potrebbe essere usato come giustificazione per la tardiva reazione contro un uomo che ha infranto ogni regola ed etichetta di comportamento degno del “titolo” di Presidente, risultando molte volte volgare e patetico.

Dunque, di motivi per cui il suo deplatforming doveva essere preso in considerazione tempo fa ce ne sono, tutti ad oggi condannabili per la sua retorica provocatoria: violazione della policy delle piattaforme, incitamento alla violenza e all’odio nei confronti dei propri avversari politici. Infine, non per importanza, numerosi i post razzisti come la questione del muro del Messico, un video in cui affermava che i messicani mandavano gli stupratori negli USA; nel pieno della sua carica non denunciò la manifestazione di Charlottesville nell’agosto 2017 organizzata dai suprematisti bianchi (nazionalisti bianchi del Ku Klux Klan) che inneggiavano al nazismo e ad una identità del tutto bianca. Non aiuta il silenzio che avuto nei confronti dell’ingiusta morte di George Floyd per mano della polizia americana, anche nel suo primo comizio del 21 giugno 2020 a Tulsa (https://www.ilpost.it/2020/06/21/comizio-trump-tulsa-disastro/) – definito dal New York Times un fiasco totale – in cui non ha citato nemmeno la famosa strage di Tulsa del 1921, quando una folla di bianchi inseguì e uccise centinaia di afroamericani.

La giustificazione di Trump che abbiamo sempre sentito nei servizi televisivi, oltre che letto sui social, è la cospirazione contro il suo governo repubblicano (dunque, i veri patrioti!). In realtà, non è la prima volta che si sente come “scusa”. Forse è meglio conosciuta sotto il nome di Pizzagate, una teoria complottista nata durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2016 (https://www.ilpost.it/2020/06/30/pizzagate-justin-bieber-tiktok/) di Donald Trump “ciuffo biondo” e i repubblicani contro Hilary Clinton e i democratici. Tipo Tommy & Gerry!

La risposta di Donald.

Non potendo usufruire dei suoi account, ne prende in prestito altri dai suoi amici e dal suo staff che però, ahimè, hanno la sua stessa sorte dopo pochi secondi dalla pubblicazione dei suoi messaggi/ avvertimenti: ha annunciato l’apertura di una nuova piattaforma proprietaria sui social con l’account @potus, divulgando un’immagine tramite il suo staff del logo di Twitter colorato di rosso con falce e martello. Ha provato a comunicare anche con l’account del digital director della sua campagna elettorale 2020 @garycoby, ovviamente anch’egli oscurato!

Insomma, caro ciuffo biondo… come direbbe il nostro caro D’Annunzio:

Taci. Su le soglie
del bosco non odo
parole che dici
umane; ma odo
parole più nuove
che parlano gocciole e foglie
lontane.


[1] Costituzione Americana, “Emendamenti Costituzionali”, I Emendamento, 1787.

[2] “La carenza di libertà di stampa e l’impatto sulle relazioni internazionali. Il caso della Russia e della Turchia”, cap. 1 “La libertà di stampa come diritto in ogni paese democratico”, sez. 1.1. La libertà di stampa in Occidente, pag. 30-31; Roma, 2020.

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