Alle origini del reale

John Ronald Reuel Tolkien e Howard Phillips Lovecraft: due giganti del fantastico che si stringono la mano a Più Libri, Più Liberi grazie ad Adriano Monti Buzzetti Colella. Il giornalista Rai, responsabile della Redazione Cultura del TG2, saggista ed esperto di letteratura fantasy, permette questo incontro al di là dello spazio e del tempo con un libro sui due ‘scrittori magici’, per usare le parole di Jacques Bergier. Uomini che non si sono mai incontrati e che, forse, non si sono mai nemmeno letti a vicenda: sicuramente Lovecraft non sapeva di Tolkien, perché muore nel ’37, l’anno in cui Lo hobbit viene dato alle stampe. Ma non è sicuro il contrario, ammette Oronzo Cilli — curatore della mostra su Tolkien alla Galleria Nazionale di Roma ed esperto tolkieniano — perché il professore di Oxford potrebbe essersi imbattuto in qualche lavoro dello scrittore di Providence. Un’eventualità a cui allude anche Monti Buzzetti, scherzando poi su altre curiose coincidenze significative: Tolkien muore nel ’73 che è l’inverso di ’37…

Ma il volume targato Historica/Giubilei Regnani non parla solo di improbabili punti di contatto. Il filo rosso che sembra legare due autori lontani, nonostante la comune appartenenza al genere fantasy, è quello di precisi riferimenti letterari condivisi. Perché, ricorda lo stesso Monti Buzzetti, Tolkien e Lovecraft, oltre che grandi scrittori, sono stati prima di tutto grandissimi lettori. Il primo sicuramente per necessità accademiche: da medievista, glottoteta e filologo non poteva che essere così. Howard Philips invece era un lettore eidetico, capace di memorizzare una pagina con un solo sguardo. Eppure, non è la quantità ad accomunare i celebri lettori: entrambi amavano la letteratura fantastica — chi l’avrebbe detto! — e in particolare alcuni nomi che ricorrono nei loro saggi e carteggi. A tal proposito, è impressionante la quota raggiunta dalla “felicissima penna” di Lovecraft: circa centomila lettere, ci tiene a precisare il giornalista Rai. Fra i vari, l’americano Clark Ashton Smith, l’inglese William Morris, lo scozzese George MacDonald e, soprattutto, l’irlandese James Joyce.

L’idea che le letture possano fungere da porta d’ingresso nel mondo immaginifico degli autori è stimolante: per Oronzo Cilli è la base del suo Tolkien’s Library, come Tom Shippey riporta nella prefazione. Tuttavia si nasconde una serpe pronta a mordere l’archeologo di personalità troppo avventato nel sollevare la pietra. Ne offre un chiaro esempio la provocazione del critico letterario Andrea Di Consoli quando, da uomo “condannato al realismo della sociologia, delle persone, dei luoghi”, ipotizza che il perno su cui ruotano le architetture fantastiche di Tolkien e Lovecraft potrebbe essere la precoce perdita del padre. Questo grande assente sarebbe quindi alla base di un conflitto con la tradizione, responsabile del bisogno di erigere realtà alternative più allettanti di quella condivisa, così da negarne gli aspetti deludenti. In altre parole, quella dei due autori sarebbe una trascendenza per disillusione o, per dirla in termini freudiani, una sublimazione. Ma la sfida del “carrozziere della critica letteraria”, come preferisce definirsi Di Consoli, va anche oltre: sarebbe proprio l’odio irrisolto col paterno a rendere i demiurghi metafisici particolarmente accattivanti… per un pubblico di destra.

In realtà “i messaggi politici li captiamo noi indirettamente”, interviene il relatore filosofo Corrado Ocone. Perché è vero: sia John Ronald sia Howard Phillips hanno perso il padre molto presto. Ma perdono anche la madre quasi subito dopo. E il fatto che siano stati inizialmente sostenuti da una figura paterna alternativa — un sacerdote cattolico per Tolkien, il nonno per Lovecraft — non basta a bollare i loro mondi immaginari come l’effetto collaterale di un trauma infantile. Sarebbe riduttivo come ammettere che non può esistere un genere letterario fantastico impegnato e creativo fine a sé stesso, non allegorico né come reazione a qualcos’altro. Lo sottolinea bene Ocone, ricordando le parole di Benedetto Croce, uno dei miti oxfordiani dei tempi di Tolkien: “La cultura non può essere asservita a un’ideale: può essere alta, politica, ma cresce su sé stessa”. E questa è una verità che vale per il fantastico e più in generale per il mito, inteso non come prodotto della barbarie, ma come il nucleo fondante della razionalità cartesiana. Senza queste radici che affondano in un passato primordiale, seguendo il richiamo dell’oltre, la ragione perderebbe il suo appiglio nel mondo e volerebbe via fino a perdere sé stessa… e noi con lei.

Tolkien e Lovecraft. Alle origini del fantastico parla di questo, dell’incontro mancato fra due grandi uomini che non volevano chiudersi al mondo rifugiandosi in realtà mai esistite. Al contrario, sono due autori che mostrano come per l’umanità sia sempre vivo un bisogno di trascendenza: solo dalla tensione fra ciò che è già e ciò che potrebbe essere si genera la fantasia. Al di là di ogni patografia e patologizzazione della creatività, lo riconosceva anche Carl Gustav Jung quando sosteneva che è proprio questa tensione a dare origine alla psiche, alla nostra anima. Senza la spinta che viene da miti e leggende, dèi e angeli, silfidi e nani, ondine e sirene, una ragione svuotata partorirebbe incubi ben peggiori degli Antichi o di Morgoth… Senza un oltre non ci sarebbe il reale e viceversa. Ed è bello immaginare che proprio là, oltre, possano convergere le strade di Tolkien e Lovecraft, per ritornare a noi nel reale grazie a questo nuovo libro e a tutti coloro che continueranno a leggerli. Perché, parafrasando Robert Ford, uno degli antieroi di Westworld — un mito contemporaneo — , Tolkien e Lovecraft “non sono morti: sono solo diventati le loro storie”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here