“Posso dire che siamo qui per riaffermare la centralità di quel che si può chiamare “pensiero solare”. Il punto di incontro della rigidità delle ideologie, della battaglia delle idee, che si discioglie nella luce meridiana dello spirito mediterraneo”.
Inizia così il discorso del neo ministro della cultura Alessandro Giuli alla Buchmesse di Francoforte tenuta proprio ieri mattina. Un discorso che La Repubblica ha pubblicato definendolo “criptico” anche questa volta.
Ora che Giuli abbia una certa passione e intimità con il criptico e l’oscuro, sarebbe indifendibile negarlo. Non è un gusto estetico che sprizza solo dal suo bel panciotto nero intonato all’abito, ma una scelta che condividono un po’ anche gli altri panciotti scuri di questa maggioranza meloniana.
Ma si abbina davvero al panciotto di un ministro oggi un linguaggio astratto e fuligginoso? Verrebbe il dubbio se non vestisse meglio col panciotto scuro del ministro Gentile (egli lo fu per l’Istruzione) o aderirebbe più alla taglia della presente maggioranza che sembra trovarsi comoda in questa veste.
Non si è notato ma quella del ministro Giuli è divenuta quasi la moda per un nuovo mantello politico che subito dopo i giorni della ricezione della sua carica ha trovato il modo per coprire le numerose lacune che stiamo riscontrando nella conduzione di questo Governo.
Due giorni dopo dalla prima conferenza del neoministro alla Camera, quella che a sua replica non era “adeguata alle capacità cognitive” del senatore Renzi che lo aveva tacciato in aula di una originale supercazzola alla Monicelli e Tognazzi, anche il ministro Salvini compare a Montecitorio in un nuovo inedito panciotto scuro.
Ma quindi è stata solo una impressione che la imminente laurea in filosofia del neoministro abbia sovraccaricato di euforia concettosa la sua pubblica dichiarazione programmatica per il mandato ministeriale alla cultura? Per tentare una risposta riportiamo qui il continuo del suo recente discorso a Francoforte.
“Quella luce in cui la nostra filosofia del limite rende compatibili e feconde le parole “giustizia” e “libertà”. – e continua – La cultura è la nostra religione universale civile. Auspichiamo tutti noi che un po’ di illuminismo, un po’ di aufklärung illumini la mente di tutti coloro che sono chiamati al momento della scelta di come indirizzare i soldi della cosa pubblica, comportarsi nei confronti dei beni culturali”.
A cambiare dall’ultima conferenza sarebbe stata, come è evidente, solo la sede del discorso e non proprio la marca di comunicazione, ovvero quella che dovrebbe versare la pubblica pronuncia in una amplissima platea di persone. La marca del suo discorso appare nuovamente, e non potrebbe assumere proprio nessun tratto di casualità stavolta, mistificatoria ed evasiva verso un compito quale di una carica ministeriale che non ha una funzione soggettiva, ma che mira ad essere nei suoi limiti quanto più oggettiva, e di conseguenza quanto più diretta e vicina all’oggetto pubblico, alla ‘cosa pubblica’.
Se l’oggetto del Ministero per la Cultura cessa di apparire “cosa pubblica” perché de facto non viene raggiunto come tale, allora anche quell’unica fonte di orgoglio e prestigio nazionale qual è la Cultura, e che proprio da decenni sta attraversando un tunnel buio che sembra infinito, sortirà una fosca fine per il Paese dell’Arte.
Per l’Italia infatti un eventuale arresto o ulteriore declino della cultura, dalla quale continua a nutrire i principali canali di rendita del proprio Pil, equivarrebbe non solo un incisivo collasso economico, ma anche a una crisi recessiva di identità nazionale.
Occuparsi al vertice dell’amministrazione pubblica della Cultura, resta tuttavia per adesso soltanto un augurio per gli italiani che conoscono la non contraddizione mal concepita dall’ex ministro Sangiuliano tra Cultura e Politica, se una laurea in filosofia non dovesse “illuminare” l’oggetto di quella succitata “religione universale civile”, e dovesse continuare a filosofeggiare sui contorni dell’oggetto che appare ancora non in “luce”, ma nel limite dell’opacità oligarchica.
Non è possibile, approntando anche noi qui una massima filosofica, occuparsi della Cultura, se non si riesce a ‘coglierne’, da qui deriva il termine “cultura”, l’oggetto del bene (culturale) comune.
Perseguendo la via della retorica sofistica davanti all’alternativa della semplicità espressiva, è un altro il messaggio invece che non riesce ad essere però cifrato, perché manifesto. Quello dell’ambiguità del potere da un lato, e della incapacità della libertà dall’altro.
Proprio gli unici due messaggi che non dovrebbero mai essere così esposti dall’autorità di un ministro. Ma forse non di questo governo, ancora troppo preso da nostalgie vaghe e oscure, dalla “rigidità delle ideologie”, dalla “battaglia delle idee”, e non per le idee. Non di questo “pensiero solare” attorno alla cui orbita muovono i pianeti delle regioni autonomamente differenziate.