“A l’arme! A l’arme! I priori fanno carne! Sottointeso: fanno carne d’uomini…”
Alessandro Barbero spiega così a Più libri, Più liberi il titolo del suo nuovo libro Laterza, mentre si riempiono gli ultimi posti dell’auditorium. Sono le parole dell’orologiaio che, nella notte fra il 19 e il 20 luglio 1378, fugge da Palazzo Vecchio per avvisare Firenze che i signori si stando armando contro il popolo. E non senza ragione: fra i torturati nelle segrete si denuncia una rivolta imminente. Nel caso specifico, la rivolta passata alla storia come ‘dei Ciompi’, una delle quattro insurrezioni trecentesche che il Magister racconta nel volume—perché di un racconto si tratta, ammette Barbero, senza nulla aggiungere allo stato dell’arte. Così comincia una storia di violenza e di speranza, narrata per bocca dei cronisti dell’epoca, che offre degli spunti interessanti sulla preistoria delle rivoluzioni.
“Sapete cos’è una rivoluzione? si fa un giro completo: i Ciompi ci sono andati vicino per qualche mese”. Ma in effetti nessuno dei gruppi insorti di cui si parla—Jaques, Ciompi, peasants e Tuchini—riesce a farlo, il giro completo: passeranno i secoli prima delle due rivoluzioni inglesi, di quella americana, della francese e della russa. Nel ‘300 però si pongono le basi, si crea un precedente: i primi ingredienti della deterrenza contro lo Stato. Come spiega il professore, si inizia a intuire una primordiale coscienza di classe. Probabilmente non ai livelli millantati da una storiografia marxista, ma nemmeno al punto di negare del tutto un arcaico senso di appartenenza della massa. D’altronde, le campagne inglesi e francesi, ma così pure i sobborghi delle città italiane, non erano fatte solo di persone sottomesse e ignoranti. C’erano contadini, artigiani, parroci, notai, negozianti, e ogni categoria, pur dovendo affrontare sfide diverse, nei momenti critici si è identificata in quella entità che chiamiamo popolo. Un organismo che è andato via via definendosi proprio grazie al confronto con la sua controparte, il nemico comune di ogni sommossa, la nemesi della collettività: i potenti.
Quali che siano le figure che la compongono, l’élite medievale del 1300 si pone come livello intermedio fra il regnante legittimo e il resto della popolazione. Ma il ruolo di mediatore ‘fra cielo e terra’si rivela molto infelice nei momenti di instabilità del regno: per esempio durante la guerra dei Cent’anni, quando le campagne francesi si rendono conto che i nobili non sono in grado di proteggere le terre. Al contrario, per non fare la fame, si danno al saccheggio delle loro stesse proprietà, ragion per cui “non è vero che i cavalieri vanno mantenuti, non stanno difendendo il regno: uccidiamoli tutti!” E l’applauso spontaneo non lascia dubbi su chi goda delle simpatie della platea in questa antica lotta di classe—ma è anche la riprova che ai barberiani piace il sangue…
È interessante che ieri come oggi il pomo della discordia risieda nelle riforme fiscali. Perché in effetti, ammette lo storico semplificando, il medioevo era capitalista: non c’erano schiavi e da uomo libero, se ti arricchivi, potevi fare qualunque cosa. Anche perché le tasse non erano un obbligo, ma una concessione del popolo al re. Infatti il sovrano non era ancora il monarca assoluto in grado di esigere tutto dai propri sudditi, ma doveva sempre parlamentare con i rappresentanti del popolo per vedere avallate le sue richieste. In Inghilterra, per esempio, la corona deve contrattare con la Camera dei lord e la Camera dei comuni. E non sempre il compromesso è equo per tutte le parti: ai commons, i comuni, la poll tax del 1381—una tassa uguale per tutti a prescindere dal reddito—non va proprio giù. Lo scontento dilaga al punto che gli esattori vengono considerati dei veri e propri traditori, al pari delle commissioni d’inchiesta inviate a scoprire chi sta sobillando i campagnoli insolventi.
A questo punto, racconta Barbero, il problema da economico diventa giuridico. I nemici del popolo e dunque del re—che all’epoca “era come il Duce: se sapesse cosa fanno, ma non glielo dicono!”—diventano i giudici, i giurati, perfino gli studenti di legge: sono tutti traditori e vanno puniti come tali, con la decapitazione in pubblica piazza—altro applauso dei sanguinari barberiani. Così, al grido di ‘King and Commons’, i focolai della ribellione infiammano il regno e nessuno può fermarli: all’epoca non esiste un esercito regolare, perché andava mantenuto con delle apposite tasse solo in tempo di guerra. Ciò significa che gli unici in grado di combattere sono i signori, che però credono bene di non farsi trovare dalla masnada infuriata che inizia a convergere verso la City…
Dunque il popolo tira dritto ed elegge perfino i suoi paladini. Dal punto di vista ideologico John Ball, un prete comunista ante litteram, che incendia le folle predicando l’abolizione della servitù della gleba e la spartizione delle terre del regno fra i commons: solo il re avrebbe avuto diritto a maggiori possedimenti… così da non aver più bisogno di riscuotere le tasse! Dal punto di vista esecutivo, invece, l’eroe designato è Wat Tyler, un artigiano—il cognome viene da tile, tegola—che viene messo letteralmente a cavallo per guidare le folle da vero cavaliere del popolo. E forte della massa oceanica che lo spinge ci riesce: arriva a Londra, dove gli abitanti accolgono i rivoltosi come amici e liberatori, proprio come essi stessi si presentano al re. Perché il popolo è convinto che il re stia dalla sua parte, tanto da essersi munito delle bandiere di San Giorgio—simbolo del regno e del suo protettore—per legittimare la propria avanzata.
Purtroppo però non finisce bene per chi ha provato a sovvertire l’ordine costituito: d’altronde non è ancora arrivato il momento delle rivoluzioni… Nonostante la decapitazione dell’arcivescovo di Canterbury—il più corrotto di tutti agli occhi della gente—, il rogo di innumerevoli documenti attestanti la servitù della gleba e nonostante l’ottenimento di nuove patenti, ornate di sigillo reale, per sancire la liberazione definitiva dal giogo dei lord, la Peasants’ Revolt viene repressa. A Smithfield, un’area verde fuori Londra, è l’inizio della fine quando Wat Tyler va incontro al re per sancire il nuovo patto fra i commons e la corona. Qualcosa va storto, Tyler non si vede più: i suoi lo credono sceso da cavallo per essere fatto cavaliere dal re in persona. Ma sebbene i cronisti dell’epoca non siano tutti concordi, appare chiaro che succede ben altro: il capopopolo viene neutralizzato dopo una schermaglia con il seguito del sovrano—forse indispettito per i suoi modi rozzi, forse spaventato per l’incolumità del sire. Nel trambusto che si crea, il re si precipita a blandire gli astanti per prendere tempo e convincerli a desistere dal fomentare il caos. Il sindaco invece parte al galoppo per convocare la milizia cittadina. E quando arrivano i nobili a cavallo, minacciosi e ben organizzati, la folla confusa e senza più un leader si disperde.
In apparenza un nulla di fatto, come le altre tre sommosse raccontate in All’arme! All’arme! I priori fanno carne! Eppure, la disfatta dei peasants nel ‘300 farà sì che la servitù verrà abolita per davvero nel secolo successivo. E molte nuove concessioni saranno fatte anche agli altri popoli d’Europa, mentre a poco a poco si prepareranno i presupposti per i cambiamenti epocali dei secoli XVII, XVIII e XIX. Un insegnamento importante per due ragioni, conclude Barbero: in primo luogo perché ci permette di rivalutare l’importanza delle ribellioni medievali, che non sono movimenti insensati, sfoghi frutto di un generico malcontento. Al contrario, i moti del ‘300 sono stati resi possibili proprio dal generale benessere di cui godeva la popolazione, anche nelle sue fasce più povere. Ed è grazie a questo benessere che si sono tradotti in pratica dei movimenti organizzati con il preciso scopo di cambiare la società.
La seconda ragione per non sottovalutare il ruolo delle rivolte popolari riguarda infine l’uso della violenza. Oggi siamo abituati alla guerra ideologica, dove l’annientamento e la resa incondizionata del nemico sono il fine ultimo—basta guardare a Est per rendersene conto. Nel medioevo invece la violenza serve a “far capire alla controparte che è meglio sedersi a un tavolo e negoziare”, ricorda Barbero. In altre parole, la violenza non mirava a conseguire un’ideale astratto, ma a ottenere risultati concreti. Una eventualità questa che possiamo dedurre dalle numerosissime lettere di grazia dell’epoca, probabilmente l’atto giuridico più diffuso perfino in seguito ai disordini più capillari. Allora, forse, la violenza medievale era ancora figlia di un tempo in cui l’istinto dell’uomo che solleva il pugno su un altro uomo lo induceva a fermarsi, a non spingersi troppo in là. Era una violenza esemplare che oggi consideriamo barbara ma che, forse, di fronte alla violenza disumanizzata, in grado di cancellare decine di migliaia di vite in un colpo solo, senza nemmeno alzarlo quel pugno… be’, forse, tanto barbara non è.