“Sul treno per Foggia con i giovani lanzichenecchi”: un testo la cui comprensione sarebbe degna di una prova Invalsi, o una domanda di cultura generale al test di Medicina; un racconto la cui lettura è capace di indurre nel lettore lo stimolo dello sbadiglio, dove l’immaterialità della noia provata dal narratore è antiteticamente tangibile direttamente dalla pagina del cartaceo di Repubblica.
“Non importa che se ne parli bene o male l’importante è che se ne parli” disse Oscar Wilde, e proprio in questo Alain Elkann è riuscito nell’intento.
Ma cos’è veramente l’articolo di Alain Elkann? È una trappola ironica, una caricatura del disagio che tutti noi, almeno una volta, abbiamo provato su un treno, dove solitamente dobbiamo trascorrervi molte ore le quali quasi mai passano tranquillamente, tra prepotenti piedi scalzi accavallati sui sedili, chiacchiere ad alta voce, enfatiche telefonate di lavoro con annesse suonerie moleste… il tutto posto a cornice del nostro nervosissimo per lo sfumato desiderio di passare un viaggio in tranquillità, magari dormendo.
Alain Elkan ha volutamente condito l’insieme con una vena provocatoria, perché diciamocelo, quale clamore avrebbe mai potuto fare la ricetta di un articolo a proposito degli schiamazzi sui treni, senza una punta acida di un pensiero scorretto, recondito, imbarazzante, equivoco? In pezzi del genere la polemica è l’addensante, come l’uovo nelle ricette di cucina: senza, l’impasto non si amalgama; o come il sentore speziato abbinato alle note del sandalo in certe fragranze, senza la quale il bouquet di profumi non sboccerebbe in modo notevole, impetuoso, acuto, impertinente, malizioso.
Questo è ciò che ha fatto Alain Elkan, semplicemente attingendo a piene mani da un universo già visto come quello del dandismo: una corrente mai del tutto estinta di uomini (e donne) – non me ne voglia Baudelaire – che vivono à rebours, controcorrente, per citare il titolo del romanzo manifesto del decadentismo scritto da Huysmans nel 1884, iniziatore del filone dell’esteta afflitto dal degrado della società che cerca di vivere la propria vita come un’opera d’arte, volgendo in poesia la prosa quotidiana.
Alain Elkan, come Pollicino, dissemina il suo racconto di briciole di dettagli e riferimenti accorti che saltano subito all’occhio: il libro Recherche du temps perdunella sua edizione originale francese (perché più “di nicchia”), le testate giornalistiche di alta caratura, e poi l’abito sartoriale in lino blu, la cartella in cuoio, l’orologio, la penna stilografica, e poi quel “malgrado il caldo” riferito al suo abito, nitido richiamo alla guerra silenziosa che il dandy conduce contro la dis-eleganza nei contesti più ostili, al grido di “secoli fa ti giudicavano se eri mal vestito, oggi è di moda l’osceno, pertanto ti guardano storto se vesti in modo impeccabile”.
Come scrivevo pocanzi, quei dettagli non possono passare inosservati per un lettore saggio e veramente intenzionato a compiere un’analisi oggettiva, essendo quel testo, più che il delirio classista che in molto ci hanno letto, un già visto timido esercizio retorico e sfoggio “culturale” ricorrente nella letteratura del decadentismo.
Alain Elkann è semplicemente andato a “ripescare” un modus narrativo disseminando qua e là dettagli non necessari, a tratti stucchevoli, ridondanti, per affollare ed adornare il testo quasi fosse una chiesa barocca strapiena, per il mero divertissement di raccontare il proprio punto di vista vestendolo di ornamenti come aggettivi, collegamenti e riferimenti arguti ed eccentrici, così come usavano fare Huysmans, Wilde e D’Annunzio.
Alain Elkan si è ritratto come il dandy del 2023 che siede su uno moderno treno ad alta velocità anziché su un Orient Express art decò, il quale si sente passato, estraneo alla dimensione presente e si consola stringendo a sé i testimoni della propria eleganza: il taccuino per i pensieri, una copia di Proust, la seconda pelle del suo abito su misura, la cartella in cuoio all’interno, e poi l’inquietudine, la provocazione, il lusso, lo stile, l’eleganza, lo sgomento, la solitudine, le disamine, l’intellettualismo, il disprezzo, l’auto esaltazione di sé e del suo anticonformismo contrapposti a quei ragazzi che egli vede come “vestiti più o meno allo stesso modo” come in «Golconda» di René Magritte, dove l’osservatore ha l’impressione che gli uomini rappresentanti siano letteralmente “gocce d’acqua”.
Infine, l’amara e beffarda tragica consapevolezza di chi, malgrado i suoi sforzi per distinguersi, giunto il momento del confronto con quegli “uno, nessuno e centomila” pirandelliani, risulta tutto sommato inesistente, e come scriverebbe Catullo: sente ciò che accade e ne è tormentato.
L’essenza del dandy è quella di essere schivo e mondano, superficiale e profondo, istintivo e razionale, vizioso e morigerato, materialista e idealista, ateo e credente, irritante e piacevole. Il dandy vive come gli pare e non esige egoisticamente che gli altri vivano come pare a lui, perché come disse Oscar Wilde “Una rosa rossa non è egoista perché vuole essere una rosa rossa. Sarebbe orribilmente egoista se volesse che i fiori del giardino fossero tutti rossi e tutte rose”.
Lo scalpore destato dall’articolo di Alain Elkann è anche dovuto al fatto che sia stato pubblicato su un giornale che ha grande risonanza ma è atipico per questo genere di disamine, nonostante di questi commenti ne esistano molti pubblicati su molte altre riviste ad hoc.
Che abbia detto cose esagerate, inopportune, sconvenienti? Ai posteri l’ardua sentenza. Sicuramente, come disse Aldous Huxley dovremmo prendere questo genere di cose con più leggerezza, ed imparare a fare ogni cosa con leggerezza, usando la leggerezza nel sentire, anche quando il sentire è profondo. Con leggerezza lasciare che le cose accadano, e con leggerezza affrontale.