A cura di Pietro Di Grazia e Luca Battaglia
Shock, paura, rabbia: gli attacchi dell’11 settembre 2001 hanno inflitto un devastante bilancio emotivo al mondo intero. Da quel giorno l’opinione pubblica, soprattutto statunitense, si è riunita in tempi brevi in uno spirito di tristezza e patriottismo, radunandosi dietro le guerre in Iraq e Afghanistan come unica via per reagire a tanta insicurezza. Di fatto, però, il potere duraturo che l’attacco alle Torri Gemelle ha ancora oggi è chiaro e, per molti, difficilmente superabile.
Dopo più di 20 anni da quel tragico evento, le immagini delle ombre delle diverse persone che, disperate, si lanciano verso il vuoto ritornano facilmente nella mente della tanta gente che, di quel giorno, ricordano ogni minimo particolare; eppure, con il passare degli anni, il mondo è notevolmente cambiato, con un nuovo ordine globale e rilevanti conseguenze in ambito geopolitico che numerose nazioni, sparse in tutto il mondo, hanno dovuto affrontare.
Il sentimento patriottico, nello specifico, è cresciuto notevolmente all’indomani dell’11 settembre 2001: dopo che gli Stati Uniti hanno avviato gli attacchi contro le forze talebane e di Al Qaida nell’ottobre successivo, più del 60% degli americani (secondo un sondaggio di Pew Research) ha affermato di sentirsi maggiormente patriottica verso la propria nazione. Ciò che incuriosisce è, nello specifico, il netto avvicinamento del pensiero politico degli americani: in quegli anni furono fissati alcuni obiettivi comuni che la politica doveva a qualsiasi costo garantire, su tutti la difesa da potenziali attacchi terroristici futuri. In tal modo, furono messe da parte, seppur solamente in un primo momento, le profonde differenze idealistiche dei diversi partiti politici. A conferma di questo possiamo certamente citare l’impressionante incremento di consenso registrato da George W. Bush tra il 2001 ed il 2002, con un’approvazione del proprio lavoro di Presidente pari al 96% per i repubblicani e del 78% per i democratici; un sostegno, tuttavia, frutto esclusivamente di quel terrore che ha chiaramente legato tutti, da destra a sinistra. Infatti, nel dicembre 2008 e quindi al termine del suo secondo mandato, secondo lo stesso sondaggio di Pew Research citato poc’anzi la percentuale di approvazione dell’operato di Bush scese significativamente, raggiungendo il solo 24% complessivo. Di fatto, la tendenza dei due grandi partiti americani a convergere verso il centro dello schieramento iniziò a venir meno, dando il via ad un processo di polarizzazione che, oggi, giustifica la presenza di un solco sempre più marcato tra gli elettori democratici e repubblicani.
Al riguardo, molti parlano di ‘Effetto 11 settembre 2001’: un’iniziale condivisione di pensiero, pronta tuttavia ad esplodere come una vera e propria bolla. Ed è proprio da quegli anni che nacque lo scontro su diverse tematiche come la difesa della nazione, i maggiori controlli verso gente musulmana e di origine medio-orientale, il sostegno all’azione militare contro chiunque risulti responsabile di attacchi contro il proprio paese. In questo contesto, trovare il giusto equilibrio tra la tutela delle libertà civili e la protezione del paese dal terrorismo era di fondamentale importanza. E lo è tutt’oggi, con tante importanti tematiche che dividono significativamente l’opinione pubblica: il razzismo, la gestione del Covid-19, l’andamento dell’economia, la politica estera. Tutti fenomeni che, così come la guerra, rimodellano il modo di pensare e di porsi all’interno della società.
Per l’occasione abbiamo voluto intervistare Barbara Mascitelli, Caporedattrice per la Politica Estera di “Lanterna”, ponendole alcune domande sulla ricorrenza e sulla politica estera statunitense.
Barbara, sono passati 21 anni dagli attentati dell’11 settembre 2001, giorno che ha segnato profondamente gli Stati Uniti, come viene vissuta oggi la ricorrenza?
Ricordo che era il primo pomeriggio in Italia, ero piccola e non capivo ancora come funzionasse il mondo. Ricordo solo che c’era tensione nell’aria, sentore che qualcosa dovesse accadere. Effettivamente fu così, il mondo si trovò di fronte all’attacco terroristico organizzato da Al Qaida. Un evento che viene ricordato tutt’oggi come quello che segnò per sempre la storia internazionale. Le Torri Gemelle di New York crollarono, i simboli statunitensi come il Pentagono – su cui si schiantò un aereo di linea usato per l’attentato – e Washington furono colpiti.
È come se avessimo assistito ad una scena di Apocalipse, migliaia di persone in strada che telefonavano ad amici e parenti, italiani, americani, cittadini del mondo che restavano in attesa di un segnale su cosa fare o, semplicemente, che aspettavano di risvegliarsi da quel bruttissimo sogno. Oggi, come allora, la strage consumata nella Grande Mela ha un solo sapore: il fallimento della storia occidentale, tutto il buono che la nostra civiltà ha cercato di costruire in tanti secoli di lavoro e sacrifici di colpo è stato spazzato via dall’odio di un male senza volto. Perché non si può accusare un’altra popolazione di essere il Male. Che sia stata una punizione o un “vile attacco” – come lo definì l’allora presidente Bush – perché è stata una folla di gente inerme ed innocente a subirla. Come succede, d’altronde, tutt’oggi in Medioriente in continue guerre civili fomentate dal sentimento egemonico delle grandi potenze occidentali.
Quello che è successo quel giorno, dunque, è un infamante attacco alla democrazia, alle nostre libertà, alla nostra civiltà, al nostro vivere quotidiano che – pur se a noi sembra semplice e banale – per il Male non lo è. Tutti, non lo possiamo negare, abbiamo pensato che fosse stato Osama Bin Laden l’artefice di questo sterminio, poi confermato e ben accertato. Eppure, come mai i sistemi all’avanguardia della più grande potenza occidentale hanno fatto cilecca?
In questi momenti di tragedia, però, ci ricordiamo di apprezzare i valori in cui crediamo, la democrazia, lo spirito della fratellanza umana, di fiducia nella capacità dell’uomo di risollevarsi di fronte alle difficoltà, di combattere, ricostruire e riaffermare i propri valori. Una capacità che non deve essere solo dell’America, ma di noi tutti nel mondo intero.
I Talebani hanno ripreso il potere in Afghanistan, come stanno trattando il “pericolo” gli statunitensi dopo il ritiro delle truppe e la fine del conflitto?
La presenza degli USA in Afghanistan risale al 2001, all’indomani dell’attacco alle Torri Gemelle. Un po’ come se fosse un do ut des: anche se la maggior parte degli attentatori erano originari dell’Arabia Saudita, gli americani occuparono l’Afghanistan perché proteggeva il mandante degli attentati. Il capo dei capi, Osama Bin Laden, l’esponente numero uno dell’organizzazione terroristica islamica Al Qaida.
Bush decise che era il momento di intervenire ed instaurò così a Kabul un nuovo governo. Purtroppo, la storia non è fatta per ingannare: già prima di Bush, l’allora presidente Clinton aveva presentato dei piani di invasione dell’Afghanistan che avevano causato il bombardamento di alcune basi di Al Qaida a Kabul, la cosiddetta Operation Infinite Reach. Dunque, questo può far pensare che l’attacco nella Grande Mela sia stato usato come scusante per velocizzare un’operazione già pianificata nei minimi dettagli.
Con il presidente Obama, in nome della difesa della nazione dal terrorismo, il numero dei militari presenti sul suolo afghano raddoppiò e di conseguenza anche la vendita delle armi.
Poi ci fu Trump che, nonostante fosse un guerrafondaio, fu l’unico che provò a negoziare con i talebani cercando di ottenere un patto di stabilità (accordo di Doha, 29 febbraio 2020, con il presidente Ashraf Ghani). Poi i giorni nostri, dove Biden decide di portare avanti ciò che aveva cominciato Trump e di ritirare definitivamente le truppe, lasciando un Paese ancora più disastrato di quando gli americani arrivarono. Subito i talebani ripresero il controllo del territorio, senza tanta fatica, non tenendo conto degli accordi presi. Infatti, ad oggi siamo tornati indietro di 20 anni ed i diritti umani che la popolazione aveva iniziato ad assaporare sono svaniti sotto i loro occhi. A pagarne le conseguenze, in particolare, sono le donne ed i bambini che non possono avere istruzione, costretti a seguire le regole ferree dei talebani.
C’è chi pensa che il vero motivo per cui gli americani siano stati in Afghanistan – a cui buttano sempre un occhio – è perché sia un punto strategico sotto l’aspetto geografico: si trova a metà strada tra l’Oriente e l’Occidente, quindi punto fondamentale di passaggio.
In queste zone i cinesi avevano pensato di far passare la Nuova Via della Seta, un’opera ingegneristica che permetterebbe alla Cina di consegnare le sue merci in tutta Europa attraverso una rete ferroviaria costruita ad hoc. Dunque, ancora una volta gli interessi degli occidentali prevalgono su quello dei civili: gli americani hanno un palese motivo di mantenere quest’area di mondo instabile (Iran, Iraq, Afghanistan) per non rovinarsi la piazza di mercato e bloccare l’avanzata cinese.
Sul versante sicurezza interna, quali politiche sono state portate avanti in questi anni per contrastare i pericoli esterni?
Ti rispondo e concludo ricordando una riflessione di Gil Barndollar, esperto della Difesa statunitense inviato in Afghanistan e Guantanamo per conto della Marina militare. Anche lui, come tutti noi, si è chiesto se ne sia valsa davvero la pena in questi anni prendere delle tali decisioni per determinare le sorti di un Paese. Con l’11 settembre gli USA sono entrati in guerra contro il terrorismo, ma invadere il Paese non è stata proprio la scelta giusta, guardando oggi il risultato di 20 anni di assedio, ovvero il fallimento.
Gli USA hanno speso circa 6,5 trilioni di dollari, più di 7.000 soldati americani sono stati uccisi, compresi i civili, lasciando il Paese in rovina. All’inizio, l’obiettivo era quello di estirpare l’erbaccia cattiva dei talebani, eliminando Al Qaida. L’errore degli americani è che hanno cercato di costruire uno Stato stabile, occidentalizzato, all’interno di una tradizione completamente diversa dalla nostra, dove ciò che per noi è banalità per loro è sacro. Ambizioni, dunque, che si sono rivelate un fallimento fin dall’inizio.
Se gli USA e i loro alleati dovessero tornare in Afghanistan prima o poi, sarebbe per eliminare i terroristi transnazionali, che hanno sia l’intento sia il potere di colpire gli USA. I diritti delle donne, delle minoranze, la repressione interna non sono cose di vitale interesse per gli Stati Uniti al momento. Si devono proteggere dall’interno perché se c’è una cosa che questa assurda guerra ha insegnato, è che il nemico non lo si trova percorrendo migliaia di km all’estero.
In conclusione, la ferita inferta dagli attacchi dell’11 settembre non si è ancora rimarginata del tutto; di fatto, sbaglia chi crede che gli Stati Uniti ed il mondo intero abbiano già superato quei momenti, visto che non possono non essere considerate tutte le varie implicazioni già esposte da Barbara.
I pericoli sono sempre dietro l’angolo, l’esperienza porta sicuramente maggiore saggezza e attenzione affinchè quei momenti non possano mai più ripetersi.
Ecco perché l’11 settembre non può essere dimenticato; deve sempre essere ricordato.