Intervista ad Abdon Pamich: esule fiumano e campione olimpico

“Nonostante fossi un esule non mi sono mai sentito diverso dai miei compagni. Lo sport appiana tutte le differenze”.

Sono parole di Abdon Pamich: Campione Olimpico di marcia a Tokyo 1964, originario di Fiume ed esule come altri 200mila italiani del nostro confine orientale costretti alla fuga per sfuggire alla pulizia etnica praticata dall’esercito partigiano jugoslavo di Tito a cavallo del secondo dopoguerra. Il 10 Febbraio l’Italia celebra il Giorno del Ricordo, onorando le vittime delle foibe e gli italiani esuli dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia.

Abdon, ci racconteresti come sei arrivato in Italia?

Una esperienza molto dolorosa, che per anni avevo deciso di non raccontare. A quell’età abbandonare luoghi e affetti è un trauma. Ma siamo stati costretti, io e mio fratello di un anno più grande di me, a prendere questa decisione, perché il clima a Fiume era diventato talmente opprimente che anche per dei bambini figli di italiani la situazione era diventata invivibile. Non ci sentivamo liberi di vivere. Abbiamo passato la frontiera clandestinamente, in calzoncini e maglietta, senza neanche un fagottello, per paura di essere ripresi e riportati indietro.

Ci racconti quel viaggio?

Un viaggio avventuroso, dal caldo del mare al freddo del Carso. Dopo 24 ore dal passaggio della frontiera arrivammo a Trieste, al primo centro di smistamento dove siamo stati rifocillati per la prima volta. Di li trasferiti ad Udine in un campo di concentramento, poi a Novara in una ex caserma militare dismessa, senza neppure i vetri alle finestre, insieme ad altri esuli delle nostre terre.

Dopo questa prima fase come vi siete stabilizzati e quali sono stati i rapporti con la popolazione italiana residente?

Mio padre trovò lavoro a Genova e noi ci siamo stabilizzati in un piccolo paese in provincia. Il primo impatto non fu dei migliori. Fummo accolti con grande diffidenza: in quel piccolo paese l’unica struttura sociale presente era la sede del Partito Comunista, e noi venivamo visti come nemici. Eravamo alla vigilia del 1948, il clima era teso, e molti erano pronti a riprendere le armi sotterrate dopo la guerra per fare la “rivoluzione”. Col passare del tempo però l’atmosfera si è rasserenata verso di noi: hanno capito che non eravamo dei facinorosi e soprattutto non eravamo dei fascisti in fuga dopo la sconfitta nella II Guerra Mondiale. Dopo qualche tempo ci siamo trasferiti a Genova. I genovesi sono una popolazione che se all’inizio della conoscenza si mostrano parecchio diffidenti, poi quando ti concedono la loro stima lo fanno in maniera limpida e leale.

Quando lo sport è entrato nella tua vita?

Lo sport è stato sempre nella mia vita. Dove sono nato c’era una forte presenza di sportivi e di praticanti rispetto alla popolazione. Io da piccolo volevo fare il pugile.

Come sei arrivato alla marcia?

Accompagnando mio fratello al campo di Genova in occasione della corsa campestre studentesca, un allenatore mi avvicinò e mi disse: “Perché non partecipi alla marcia oggi?”. Da quel momento sono diventato, un po’ per caso, un marciatore.

Direi non un marciatore, ma il marciatore, che ha segnato mezzo secolo di storia di quello sport: ci puoi riassumere i passi salienti della tua carriera?

Ho iniziato nel 1952, poi gli europei del 54 a Berna, ma a causa di un pessimo allenatore, non ho raggiunto i risultati che speravo. A quei tempi i metodi di allenamento erano tutt’altro che scientifici e poteva capitarti un tecnico che di marcia non capiva molto. Poi ho vinto la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Roma nel 1960 e l’oro a Tokyo 1964, oltre ad altri successi agli europei ed ai Giochi del Mediterraneo.

La marcia tra le specialità dell’atletica leggera è vista sempre come un mondo a parte, perché?

Un marciatore sta all’atletica leggera come il portiere di una squadra di calcio sta agli altri 10 giocatori.

Cosa diresti ai giovani delle generazioni di oggi che si avvicinano allo sport?

Di mettere al primo posto la parte ludica dello sport. Di divertirsi in ciò che fanno, senza porsi né limiti né obiettivi precostituiti. Praticare sport con serenità è il primo gradino per ottenere il massimo dal nostro corpo e dalla nostra mente.

Abdon Pamich ha raccontato la sua storia anche in un libro dal titolo: Storia di un Marciatore, contribuendo a scrivere anche altri volumi sulla storia degli sportivi originari delle terre di Istria, Fiume e Dalmazia, nello sport italiano.

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