Laura (pseudonimo) ha trentatrè anni e non è sempre vissuta in città. È nata e cresciuta a Sora, poi si è laureata in lettere classiche vivendo a Roma. Ha preso anche il dottorato, acquisendo la costanza ostinata dei pendolari hardcore, quelli che impiegano più di un’ora di treno per raggiungere la destinazione giornaliera e che raccolgono sguardi di muta ammirazione dai romani di San Giovanni, quelli che si disperano perché hanno perso il tram delle otto e dieci. Per fortuna, dopo il dottorato, Laura è entrata nella scuola col botto: nel giugno 2017, dopo la discussione della tesi di dottorato, invia la sua candidatura come commissario esterno per gli esami di stato e viene chiamata in un liceo di Roma.
Poi, segue il percorso che conoscono tutti i docenti: la graduatoria di terza fascia, il gioco delle convocazioni, l’inizio della gavetta e del precariato.
A Laura ho chiesto i pro e i contro di questo lavoro. Dimmi due buone ragioni per svolgere questo lavoro e un motivo per correre via a gambe levate, prima di subito, con la coda tra le gambe.
Pochi dubbi riguardo ai pro: insegnare è un lavoro stimolante e creativo. A chi teme la noia di insegnare contenuti identici anno dopo anno, Laura risponde che è una paura che non ha senso, perché reinventarsi è indispensabile, dato che ogni classe è diversa. Inoltre, stare a contatto coi giovani mantiene giovani, e se non è un vantaggio questo…
C’è un contro rilevante: insegnare non è più un lavoro stabile. Gli autunni scorrono in attesa di una chiamata, della supplenza al 30 giugno che permette di sbarcare il lunario. Così, è davvero difficile costruirsi una vita e acquistare una casa; Laura lo sta facendo e dice che forse è una follia. Io ascolto, comprendo e penso che sia semplicemente un gesto molto coraggioso.
Non glielo chiedo, ma è lei a dirmi che insegnare non è un lavoro per tutti. Meglio evitare se si è poco poco propensi al compromesso, e non posso che concordare con lei: rivedere le proprie posizioni e saper lavorare in gruppo sono le basi, se si fa parte di un consiglio di classe. Tanti brillanti ricercatori non ce la fanno, mi dice Laura: per quanto brillanti, il contatto umano quotidiano e non mediato li spaventa, così come la consapevolezza che, da tempo, quello di docente non è più un lavoro in solitaria.
Mi faccio raccontare la sua prima supplenza: 4 ore di italiano in prima liceo. Poche ore, ma in fondo è stato meglio così: con calma, Laura ha imparato quel che c’era da mettere in cantiere, tra Bisogni Educativi Speciali e programmazioni da consegnare. La salvezza? I colleghi disponibili. I sindacati? Meglio dimenticarsene: l’aiuto, quando arriva, è tramite amici di amici; eppure, un supporto legale è indispensabile per sbrogliare la matassa in termini di normativa scolastica.
Quando le chiedo cosa pensa delle procedure di assunzione dei docenti, Laura mi racconta la sua esperienza nel tritacarne del concorso straordinario, svolto lo scorso autunno tra una zona rossa e l’altra e riservato ai docenti che, come lei, vantano almeno tre anni di servizio nella scuola statale.
Laura si chiede cosa succederebbe se non dovesse passare la prova. Si chiede, soprattutto, perché lei debba essere giudicata inadeguata dopo il superamento di un concorso, dato che è stata giudicata adeguata per insegnare, valutare, esaminare, firmare documenti e tenere corsi di recupero. Vuol dire, forse, che lo Stato mette gli studenti in mano a docenti di dubbia preparazione? Non sarebbe meglio entrare nell’ottica di formare i docenti con un tutoraggio?
A questo punto, siamo pronte per parlare di didattica a distanza che, in fondo, non è così terribile come la si dipinge, soprattutto se confrontata con gli orari cervellotici entrati in vigore dopo Natale nelle scuole superiori: tra classi in presenza, classi a distanza, chi entra alle otto e chi entra alle dieci, la confusione è garantita e amplificata dalla connessione zoppicante dell’istituto. A questo punto, meglio la Dad: almeno l’orario è stabile e non si spostano i compiti sul registro ogni settimana. E pazienza se qualche verifica non è affidabile al cento per cento. Pazienza anche per la cervicale, l’asocialità dilagante e il rapporto coi ragazzi, che va reimpostato ogni volta che si passa dalla didattica in presenza alla Dad e viceversa.
Quando chiedo a Laura cosa serva davvero ai ragazzi, non percepisco alcun dubbio nella sua risposta: “Serve la continuità di cui tutti parlano e che le famiglie richiedono, ma che nessuno sembra voler garantire, in pratica. So che è difficile garantire continuità didattica se c’è un gran numero di docenti precari, ma ho notato che tale principio viene sistematicamente ignorato anche quando si tratta di docenti di ruolo, che si vedono sottrarre, magari all’ultimo anno di scuola, classi che hanno formato e seguito. Ho avuto continuità al liceo, ho goduto di questa fortuna. Vorrei la stessa fortuna e lo stesso trattamento anche per i ragazzi di questa generazione. E poi,” mi dice, “non avremmo diritto anche noi precari a non essere spremuti come arance e gettati via quando si arriva allo stremo delle forze?”