Historia magistra vitae: i Lupercalia, festa di purificazione nell’antica Roma

Lupercalia dicta, quod in Lupercali Luperci sacra faciunt. (Varro., Ling., 6,13.) “I Lupercali sono chiamati così perché durante questa festa i Luperci fanno sacrifici nel Lupercale.”

Per i Romani, il mese di Febbraio rappresentava un periodo ricco di festività. In particolar modo, secondo la tradizione, il 15 del mese si festeggiavano i Lupercalia, celebrati in onore di Luperco, antico dio latino collegato con il lupo sacro a Marte, era un momento di purificazione, all’inizio, del gregge, e poi della città palatina. Basti pensare che il nome stesso del mese deriva dal verbo februare, che significa “purificare” o “un rimedio agli errori”.

La festività s’inserisce nel più ampio periodo dei Parentalia, gruppo di nove giorni che si dispongono dal 13 al 21 dello stesso mese; questi sono definiti giorni  funesti (ferales) in cui ogni famiglia si occupa dei propri morti. Inoltre, a partire dall’ora sesta del 13 fino al 21 febbraio, i magistrati abbandonano le insegne e “procedono vestiti come privati cittadini”;  i  templi degli deì sono chiusi, non si svolgono sacrifici, non si  accendono fuochi, è proibito contrarre matrimoni. Da questo si può comprendere bene perché Plutarco parli di come  la festa  cada “nei giorni nefasti” del mese di febbraio, in un momento in cui la civitas religiosa dei  magistrati e dei sacerdoti è costretta come ad arretrare, se i magistrati rinunciano alle loro insegne e i templi degli dei sono chiusi, tempo in cui la città è ritualmente impura.

La festa si svolgeva innanzi al Lupercale, sacra grotta, secondo le fonti, ai piedi del Palatino dove, all’ombra di un fico, Faustolo avrebbe rinvenuto i gemelli Romolo e Remo allattati da una lupa.

Lupa capitolina, V sec. a. C o età medievale, Musei Capitolini

La festa, che è la più ricca di problemi di tutto il feriale romano, si svolgeva in due fasi.

La prima prevedeva che i due sodalizi dei Luperci si recassero al Lupercale e immolassero capri e un cane, mentre le vestali offrivano focacce fatte con grano delle prime spighe della passata mietitura.

Nella seconda fase due giovani, appartenenti ai due sodalizi, venivano toccati sulla fronte con il coltello bagnato del sangue dei capri immolati. Il sangue veniva poi asciugato con un fiocco di lana bianca immerso nel latte, e subito i due giovani dovevano sorridere.

Dopo aver indossato sul corpo nudo la pelle degli animali sacrificati e dopo aver ricavato dalla stessa due strisce di pelle dette februa o anche amiculum Iunonis, correvano attorno alla base del Palatino e percuotevano quelle donne che si offrivano al colpo per ottenere la fecondità.

Se si considera che i Lupercalia erano celebrati in un momento in cui i cittadini più illustri si spogliavano del loro status, non sorprende che i luperci siano definiti nudi. Non dobbiamo immaginare uomini cinti dal solo perizoma, come spesso sono rappresentati, ma nudi, nel senso latino del termini, dunque, senza toga. La stessa corsa, elemento fondamentale del rituale, è sintomatico di un’attitudine schiavistica come ricorda il biografo dell’ Historia Augusta nella vita di Severo Alessandro. Ancora una volta, dunque, la corsa, come la nudità”, viene percepita a Roma “dalla parte della natura”, dalla parte del dio Faunus.

Frammento di mosaico, prima metà III d.C., El Jem

Il rituale di questa seconda fase appare costituito da due elementi; il primo è lustratorio e consiste nella nel circondare la città quadrata correndo, rito che in origine doveva esser compiuto dai pastori intorno al gregge per chiuderlo in un cerchio magico, a presidio dai lupi (Luperco da lupum arceo),

Il secondo elemento è iniziatico: i nuovi adepti dei Luperci venivano assimilati alla vittima sacrificale sia nella morte, ricevendone il sangue sulla fronte, sia nella risurrezione, venendo detersi con il latte che è alimento dell’infanzia e dovendo sorridere, il che ritualmente significa pienezza di vita. Divenuti così uomini-capri, fustigavano le donne procurandone la fecondità.

La festa perdurò tenace durante l’epoca imperiale. Si ha ricordo di una celebrazione ai tempi di Antemio (467-472), dopo il qual tempo deve essere stata sospesa fino al 494, nel quale anno il senatore Andromaco la richiamò in vita in occasione di una pestilenza che desolò la città. La riesumazione provoca la reazione di papa Gelasio I in un’apposita invettiva Adversus Andromachum senatorem. Secondo la tradizione, fu proprio questo papa a sovrapporre la festa di San Valentino, il cui dies natalis era festeggiato il 14 Febbraio, ai più cruenti Lupercalia.

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