Twitter, non solo Trump nel mirino

Caro Twitter, ma cosa combini?

Ci siamo lasciati con l’account di Trump oscurato dopo l’assalto a Capital Hill, ma le intenzioni c’erano già da un anno. Sta facendo il giro del web un tweet del creatore del social network più discusso negli ultimi tempi, Jack Dorsey, risalente al 30 ottobre 2019:

We’be made the decision to stop all political advertising on Twitter globally. We believe political message reach should be earned, not bought. Why? A few reasons…

Dunque, stando alle parole di Jack, il blocco si sarebbe dovuto avere dal novembre 2019 ma non c’è mai stata una reale presa di posizione. Perché fare ciò? In fondo, il compito di Twitter non è diffondere il messaggio degli utenti, qualsiasi essi siano?

Ebbene, partiamo dal principio: Twitter nasce a San Francisco il 21 marzo 2006 come servizio di notizie e microblogging (ovvero pubblicazione costante di piccoli contenuti  sotto forma di messaggi di testo, appunti, citazioni … in rete) con l’obiettivo di facilitare la conversazione (280 caratteri, precedentemente 140) pubblica su svariati temi purchè gli utenti non usino violenze, molestie e altri comportamenti che scoraggiano ad esprimersi. Dunque, come Facebook e Instagram, è visto come un contenitore pieno di contenuto (in questo caso la comunicazione politica).

Non è un pensiero odierno questo, si possono rintracciare prove di ciò già negli anni Sessanta con il sociologo Marshall McLuhan nel suo libro “The Medium is the Message” (1967) in cui approfondisce meglio che non si debba distinguere il contenuto dal contenitore ma che in realtà sono la stessa cosa. Vivono in simbiosi: «il medium è il messaggio», il mezzo di comunicazione condiziona ciò che si vuole comunicare. E ai suoi tempi, prendeva in considerazione la televisione, la radio, la stampa mentre oggi si estende ai social networks che permettono la connessione h24 sorvolando quindi – se usato in modo superficiale – il messaggio che si vuole trasmettere.

McLuhan teorizzava, infatti, che non avendo un ruolo neutrale i media agiscono da stimolanti per l’attenzione del pubblico, ma conta chi scrive. Ad esempio, le innumerevoli volte in cui Trump ha dichiarato le elezioni di Biden “rubate” non avevano bisogno di prove, ma contava l’autorità di chi lo diceva e la disponibilità dell’audience nel crederci. In quel momento il pubblico non si è posto il problema se fosse o non fosse la verità, semplicemente era un messaggio forte e soprattutto veloce da mandare e recepire, senza giri di parole. D’altronde, i social si basano su messaggi chiari, semplici e diretti anche se non sono state trovate le prove di ciò che dichiarava.

È come il gioco della moneta, testa o croce: il pubblico decide di credere alla verità o dall’altro lato alla post verità, termine coniato dall’èlite nel ’92 e riusato dal politologo Dominique Moisi relativamente ai social dal 2009 fino ad oggi. Dato che la mela non cade mai troppo lontano dall’albero, nel 2016 (guarda caso!) questo termine viene ripreso da Oxford Dixionary per catalogare la vittoria di Trump alle elezioni di Presidente degli Stati Uniti d’America.

Il tutto parte da vari siti falsi (chiamamoli anche fake!) a suo favore denigrando l’avversaria Hillary Clinton con la pubblicazioni di email in cui si parlava di suicidio. Bella mossa, se non fosse che sono stati subito scoperti… siti e fake news pensate apposta per distorcere informazioni effettivamente vere o addirittura inventandosele per avere un effetto mediatico virale e provocare una certa reazione sociale, positiva o negativa. Idem per quanto riguarda anche il referendum sulla Brexit, attraverso pubblicità sponsorizzare su Facebook con immagini persuasive con un copy falso.

Oppure, prendiamo in esame un tema che non si è ancora distaccato dalla nostra quotidianità: il negazionismo della pandemia. Sul web, in tv, sui giornali ci sono tesi negazioniste riguardo alla pandemia. Per carità, ognuno è libero di pensare ciò che vuole (a volte forse anche sbagliato davanti all’evidenza?!) anche che questo sia un virus preparato in laboratorio (che non necessariamente vuol dire che non esiste!). Può essere una realtà, una verità ma non certa. Non abbiamo nulla di certo su essa. Ma renderla allucinata e paranoica ha fatto in modo che ne diventasse una realtà così, giustificando in qualche modo l’uso della parola “negazionismo”.

Essere costantemente presente sui social networks, dunque, sta modellando il nostro vivere quotidiano. Siamo influenzati dal pensiero espresso nelle piattaforme, considerato più alla moda; come successe nel ‘700 con la nascita del romanzo di Goethe “I dolori del giovane Werther”, l’Europa fu inondata dai suicidi emulando la vicenda d’amore sfortunata del protagonista del romanzo.

Dato che questi messaggi per lo più sono diffusi da account di capi di stato, molti esperti di comunicazione ritengono giusto eliminare gli account dei capi di stato. I motivi:

  1. Perché Twitter è stato pensato con l’obiettivo di abbassare le barriere comunicative tra le persone, e scrivere in modo compulsivo i propri commenti e pensieri in pochi caratteri.
  2. I capi di stato non hanno davvero bisogno dei social per comunicare con il proprio elettorato perché hanno efficienti sistemi di comunicazione.

Elogiamo il neo presidente degli USA Joe Biden che usa pochissimo (se non quasi per niente!) Twitter per messaggi politici, fruendo della sua portavoce Jen Psaki. Ha usato i social solo per quanto riguarda il suo insediamento nella White House. Dunque, l’inaugurazione di un nuovo modo di fruizione dei social networks. Un altro punto a suo favore, che segna decisamente un distacco netto dall’istituzione politica a lui precedente.

E mentre Joe Biden si allontana dai riflettori mediatici con eleganza, rimangono della politica social di Trump il presidente del Brasile Jair Bolsonaro, negazionista del coronavirus, che continua a scrivere messaggi di un certo tono su Twitter.

A seguire Nicholas Maduro in Venezuela: non si capisce se sia negazionista o come una bandiera che va dove lo porta il vento (un po’ anche credulone della pandemia). Ma propone sul suo account Twitter un modo “efficace” per sconfiggere la pandemia, 7 giorni chiusi e 7 giorni aperti. <<Una sorta di valvola per pentola a pressione. Il “corona – populismo”>>  [Democrazia e regole, Dalla primavera araba al blocco di Trump: Twitter crea, Twitter distrugge; di Massimo Sideri, sez. Esteri; Corriere della Sera n.7, 05/02/2021]. Per non parlare del caso iraniano: c’è un sito @khamenei_site che si spaccia per quello di riferimento della Guida Suprema Iraniana Ali Khamenei, in cui vengono definiti inaffidabili i vaccini contro il coronavirus prodotti negli USA e nel Regno Unito.

Account che può essere associato al caso di @realdonaldtrump, in quanto non sono presenti proprio dei messaggi di fratellanza, dialogo e diplomazia internazionale. Un esempio è il tweet relativo l’uccisione di Soleimani nel 3 gennaio 2020 a Bagdad: “la vendetta è inevitabile…” . Fu ucciso da due missili lanciati da un drone americano, autorizzato da Trump e rivendicato da lui stesso, perché era diventato uno dei leader più popolari dell’Iran, soprattutto per il suo ruolo nella guerra contro l’Isis in Siria e Iraq.

Questo sito, però, è stato bloccato e dapprima il tweet cancellato, ma si è scoperto che l’Ayatollah ha diversi account istituzionali, in diverse lingue e per milioni di persone. Insomma, una bella caccia al tesoro nel trovare quello originale perché questo non lo è… dunque, rimaniamo col dubbio: chi è? NB: Gli iraniani non hanno la possibilità di accedere ai social…

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