Nell’autunno 1956 la rivolta degli studenti di Budapest fu il primo squarcio in quella cortina di ferro sovietica che opprimeva metà dei popoli europei. Una rivolta repressa nel sangue e nel ferro dei carri armati dell’Armata Rossa, che non scalfì il regime comunista di Mosca. A quella domanda di libertà il resto dell’Europa, in ossequio agli equlibri di Yalta, rispose con un silenzio assordante, di fatto dando sponda a chi quell’aspirazione di democrazia avrebbe ben presto soffocato. In questi giorni le strade di Budapest sono di nuovo palcoscenico di proteste di popolo. Il bersaglio è il governo di uno dei paladini del sovranismo continentale, quell’Orban plebiscitariamente votato e sostenuto fino a pochi mesi fa da quello stesso popolo, in nome del no all’immigrazione e di un nuovo vecchio nazionalismo etnico. A scatenare le proteste è stata la legge sugli straordinari, che impone ai lavoratori l’innalzamento fino a 400 delle ore di straordinario annue a parità di retribuzione. I manifestanti parlano di nuova schiavitù, mentre due parlamentari dell’opposizione scesi in piazza denunciano maltrattamenti da parte delle forze dell’ordine, denunciando le leggi liberticide che restringono la libertà di stampa in Ungheria. Curioso che la causa che ha portato il governo di Budapest a varare tale legge è la scarsità di manodopera in una nazione che ha fatto del rifiuto a qualsiasi tipo di immigrazione un tratto distintivo. Senza immigrati mancano numericamente lavoratori e si ricorre a forme e condizioni di lavoro assai simili allo sfruttamento per gli ungheresi, pena il crollo di un sistema produttivo che negli ultimi anni, anche grazie ai fondi europei ed a un regime fiscale competitivo, è cresciuto molto rapidamente. Si possono trovare assonanze o differenze tra le proteste di oggi e quelle del 1956? I governi verso cui si rivolgono sono di colore diverso, rossi ieri, bruni oggi, la loro tendenza alla repressione delle minoranze, alla limitazione delle libertà, individuali e collettive, all’uso della violenza di Stato, sembrano molto simili, ieri lo si faceva in nome del “socialismo”, oggi del “sovranismo”, ma poco cambia. Nel ’56 furono gli studenti ad accendere la miccia, oggi in piazza non c’è una categoria specifica, ieri la libertà era il tema dominante, oggi le condizioni di lavoro. Uguale pare la reazione rispetto ai fatti da parte del resto d’Europa ed in particolare in Italia. Impegnatissimi a dissertare sulla punta di giallo dei maglioni francesi, tutti zitti sui fatti ungheresi. Comprendiamo il silenzio del Vice Premier Salvini che fa di Orban il suo modello, così come l’imbarazzo del suo compagno di merende Di Maio, che magari prima di esternare dovrà consultare una carta geografica per capire l’esatta ubicazione dell’Ungheria. Comprendiamo assai meno l’omertà imperante dei media nostrani, Rai Tv in testa, già colonizzata e prona ai nuovi “padroni”. Nulla dal Tg diretto dal biografo di Putin, nulla dai comici di “regime”, nulla di nulla neanche dalla sinistra radical chic intenta a banchettare sulle spoglie del Pd derenzizzato. Nessun appello sui giornali firmato dai costituizionalisti sempre pronti a gridare contro il pericolo democratico. Ma una domanda ci sovviene spontanea: che fine ha fatto la destra italiana? Per capirci, quella che nei cortei cantava “Avanti Ragazzi di Buda, Avanti Ragazzi di Pest”, ricordando la rivolta del ’56? Dov’è la voce del partito liberale di massa che ha fatto per 20 anni della libertà il valore fondante del centrodestra italiano? Per la destra la spiegazione è tanto facile quanto triste: in attesa di una totale assimilazione al salvinismo che non tarderà a venire non appena si otterranno alcune garanzie di rielezione per qualche famiglio, si possono ben tacitare e dimenticare le canzoni di gioventù, poco importa se con esse si buttano a mare tutte le velleità di autonomia di pensiero e cultura politica. Per chi ancora si ostina a definirsi liberale o fa della libertà un valore di riferimento, in questi tempi difficili, chiediamo un po’ di coraggio in più, uno sforzo per andare oltre i vecchi recinti, perché nella vana attesa che Salvini ricomponga i cocci di un centrodestra impossibile da rifare uguale a se stesso, non si possono svendere le ragioni sociali di una concezione politica che nel bene e nel male ha determinato molto degli ultimi 20 anni. Così come nel 1956, le proteste di oggi probabilmente non sortiranno grandi effetti, magari saranno assorbite in pochi giorni, ma come nel ’56, saranno il seme da cui far germogliare in futuro una nuova idea di libertà, per l’Ungheria, per l’Europa e per l’Italia, dopo la sbornia sovranista.