“Te ígitur, clementíssime Pater, per Iesum Christum Fílium tuum Dóminum nostrum, súpplices rogámus, ac pétimus…” In queste parole, duemila anni di Chiesa, millesettecento anni di Canone Romano.
Ma cosa è il Canone Romano?
È l’anafora più antica presente in Santa Romana Chiesa e venne redatta nel periodo fra il IV e V secolo dopo Cristo, riferendosi già allora alla precedente tradizione trasmessa dai ministri di culto dei primissimi secoli di evangelizzazione cristiana. (Adrien Nocent nella pubblicazione “La celebrazione dell’Eucaristia secondo il “Canone Romano”, in “Anàmnesis.”)
Introduzione storico teologica alla liturgia”, nel 1983, confermò definitivamente che il Canone Romano è sostanzialmente consegnato a noi nella forma intatta dal XIII secolo.
Nel messale di oggi, troverete “Preghiera eucaristica I” o “Canone Romano”: infatti esso è la principale preghiera eucaristica in uso nella Chiesa cattolica di rito romano, anche se nella prassi ormai consolidata sono ben più frequenti nelle celebrazioni domenicali le preghiere eucaristiche II e III (quest’ultima un po’ più solenne).
Per i neofiti (rectius, inesperti) di liturgia, la preghiera eucaristica è la formula consacratoria che viene utilizzata nella seconda parte del rito della messa ai fini della consacrazione del pane e del vino, frutto della terra e del sacrificio umano, che sono oggetto della transustanziazione in Corpo e Sangue di Cristo, ovvero del cambiamento “della sostanza della materia e non del suo accidente”, aristotelicamente intesi.
Prima di arrivare però alle odierne forme ordinaria e straordinaria (in rito latino, concesso da Benedetto XVI) del rito romano, il Canone Romano venne aspramente criticato come preghiera eucaristica consacratoria in vari snodi conciliari della vita della Chiesa.
Già nel Concilio di Trento, i riformatori, fra cui figurava un “tale” Lutero, sostenevano che fosse pieno di errori ed omissioni.
Nonostante le critiche, prevalse la salvaguardia della formula eucaristica che rimase quindi il deposito della Tradizione, immune da ogni errore: “niente in esso è contenuto che non elevi a Dio l’animo di coloro che offrono il santo sacrificio”, così si affermò definitivamente nel Decreto dogmatico del Concilio di Trento “De sanctissimo sacrificio missae” alla XXII sessione, il 17 settembre 1562.
Pochi ritocchi, hanno lasciato intatta la sostanza, della formula più antica e sempre nuova della Chiesa, che incarna in un lessico orazionale l’opera del Mistero cristiano della perenne istituzione dell’Eucarestia.
La forma ordinaria, così come quella straordinaria, vede il Canone composto, in ordine, da una preghiera per la Chiesa militante, una preghiera per i vivi, una preghiera per la Chiesa trionfante in paradiso, nella quale si fa memoria di Maria, san Giuseppe, menzionato per volere di Papa Roncalli, dei dodici apostoli, dei primi cinque papi escluso il già menzionato Pietro, e dei martiri, segue una preghiera preparatoria alla consacrazione, l’epíclesi consacratoria, che è una preghiera rivolta a Dio affinché conceda l’effetto desiderato che in questo caso è la transustanziazione, consistente nel cambiamento sostanziale di pane e vino in Corpo e Sangue di Cristo, poi il racconto dell’istituzione dell’Eucaristica, segue l’anamnesi, cioè il ricordo che il sacrificio della messa rappresenta e ripropone la morte di Gesù, a cui succede una preghiera per la memoria dei defunti con tanto di pausa silenziosa, e in essa vengono ricordati i primi martiri, e infine il canone conclude con la dossologia, cioè la cosiddetta glorificazione.
La riforma liturgica di Paolo VI ha abolito i ventiquattro segni di croce fatti dal celebrante durante tale preghiera eucaristica, le inclinazioni del corpo sono ridotte da cinque a tre, le genuflessioni da sei a due, l’altare non viene più baciato, mentre nel precedente Messale veniva baciato due volte.
Tali modifiche, a umilissimo parere di chi scrive, da discente appassionato e non da tecnico, possono ritenersi diminutive della potenza comunicativa della più importante azione liturgica all’interno del rito della Santa Messa, l’uomo ha infatti bisogno di parole e gesti per ben comprendere il rilievo spirituale e immateriale di quello che i sacri riti propongono di credere.
Ma ancorati a queste antiche parole, che rimangono stimolo sensibile, manteniamo intatta la fede e l’efficacia agente della preghiera liturgica più antica della Chiesa, trasmessa dai suoi antichi ministri.