“L’apparenza del mare calmo”: intervista all’autrice Silvia Bottero

“Quei due si regalavano attimi eterni, congelati in tempi non determinati. Forse quel modo di perdersi, era l’unico mezzo concesso per trovarsi o per mettere fine alle ricerche di una vita che contava a malapena vent’anni”

Immaginate di trovarvi in un café di Berlino. È il 1928 e mentre una musica al di là del tempo si spande lenta dai tasti di un pianoforte, tra le pieghe di un locale fumoso, gli occhi di due ragazzi si incontrano per la prima volta.

Inizia così “L’apparenza del mare calmo”, romanzo scritto a quattro mani dai due giovani scrittori emergenti, Silvia Bottero e Riccardo Piazza; un effluvio di prosa intaccata di poesia, che solo la penna ribelle dei vent’anni avrebbe potuto generare. 

Colpita dallo stile peculiare e da quel particolare tipo di attrazione che solo i romanzi scritti “per necessità” possono dare, ho deciso di intervistare una delle autrici di questa storia —nonché una delle due graphic designer che hanno realizzato la copertina— ponendole cinque domande che potessero fare luce sugli aspetti più affascinanti del romanzo.

La vostra nasce e si sviluppa come una storia scritta a quattro mani. 
Non dev’essere semplice mettere in comune qualcosa di tanto intimo come la scrittura di un romanzo. È qualcosa che parla di sinergie, di incontri che vanno al di là della singola presenza… Ecco, io ho sempre pensato che fosse un po’ come lasciare a due anime la possibilità di toccarsi, di contaminarsi a vicenda, quasi di fondersi, per poter dar vita a un’opera che sia unica e allo stesso tempo piena delle doppiezze e delle contraddizioni tipiche dell’essere umano. Si gioca a carte scoperte, ogni emozione è nuda davanti agli occhi dell’altro, quindi mi chiedo: quando è nata in voi l’esigenza di scriverlo? Qual è stato l’epilogo, la scintilla che ha fatto collidere i vostri universi? 

Credo che prima di venire a conoscenza di avere esigenza di scrivere insieme, vi sia stato lo stupore del riscontrare che stesse cominciando ad essere così.

Parlavamo tra di noi, verbalmente e telefonicamente, come se stessimo sempre in un testo, in una poesia.

Anche il messaggio sul cellulare, era come scriversi una lettera.

Un giorno, ricordo la spontaneità con cui mi venne mandato questo inizio, queste righe; ed io, senza neanche chiedere il permesso, ho continuato a scrivere di seguito.

Devo dire che la consapevolezza che quello che stessimo facendo fosse “scrivere insieme”, è venuto fuori dopo qualche botta e risposta letterario.

Eravamo entusiasti, come se avessimo vinto già tutto in quel momento.

Essendo voi un lui e una lei come i protagonisti della storia, è difficile non immaginare Anita e Marcel come se fossero una sorte di vostro alter-ego, disperso in qualche anfratto dei Roaring Twenties. Nel leggere la caratterizzazione dei vostri giovani amanti si ha continuamente la sensazione di qualcosa che trascende la mera narrazione, qualcosa di vissuto fin sotto la pelle, tanto da apparire incontrovertibilmente vero, intimo.

Chi sono per voi Anita e Marcel?

Quali tratti sentite di condividere maggiormente con i vostri protagonisti? 

Sicuramente il pattern emotivo e di conseguenza le reazioni dei due protagonisti, hanno trovato un’origine all’interno del nostro trascorso.

Tuttavia, non sono mai stati classificati da noi come delle nostre coscienze, per via del fatto che abbiamo messo mano reciprocamente in entrambi; quindi si snodavano un po’ nelle nostre giornate e attraversavano con noi i nostri momenti.

Erano e sono tutt’ora un riferimento molto forte alla nostra vita, più profondamente al nostro modo di vivere la vita stessa.

Nel romanzo il punto focale sembra essere l’amore; un amore irrefrenabile e insieme poetico, che non unisce unicamente i due protagonisti ma finisce per caratterizzare ogni singolo personaggio all’interno della narrazione. Durante la lettura ne incontriamo diversi tipi, di questo amore che sembra curare e insieme dilaniare: c’è l’amore filiale e nostalgico di Anita per Gustav, l’amore in grado di trasformare amici come Sandra e Thomas in una famiglia… eppure, non è solo questo. C’è anche un altro tipo totalmente diverso di amore, un amore che sempre più spesso si tende a svalutare, a non considerare come qualcosa di viscerale, impossibile da scindere da coloro che lo provano: l’amore per i libri, per la musica, per l’arte. Questo sentimento trasuda a ogni pagina e finisce per agisce quasi da collante, un filo rosso che legando inestricabilmente Anita e Marcel fa da gancio a un altro impulso altrettanto irrefrenabile: la rivoluzione
Per voi cosa è? Cosa significa davvero “fare la rivoluzione”? Nell’arte, nella vita… 

La rivoluzione per me è un sentimento irrefrenabile di amore nei confronti del non voler scendere a compromessi su cosa valga la pena vivere; inteso a livello emotivo e valoriale.

Ogni giorno, fai la rivoluzione se hai questo promemoria nel tuo cuore; e ti muovi, agisci di conseguenza.

Nel pratico si avvale anche del concretizzare tutte quelle parole che proferiamo nei confronti di determinate situazioni; avendo l’occasione di alzarsi in piedi, anche se rimani da solo.

Ecco la rivoluzione è una raffinatezza per cui non basta avere coraggio; è qualcosa per cui non puoi fare altrimenti.

E’ impossibile non notare quanto significato abbiano per voi le città nella quale l’intera storia è ambientata; città che lungi dal fungere come mera ambientazione diventano quasi dei personaggi a loro stanti, ognuna con i propri vezzi, le proprie virtù, le proprie manie. Da una parte abbiamo una Parigi inguaribilmente romantica, le labbra sporche di vino, gli occhi rivolti all’indietro ma anche avanti, quasi fosse eternamente incastrata fra le più folli speranze future e le più tragiche nostalgie passate; dall’altra abbiamo una Berlino tagliente ed enigmatica, una dama fredda dalle ferite ancora aperte. 
Credo che i lettori siano ben lontani dal credere che queste siano solo caratterizzazioni pindariche, pertanto mi chiedo… quali sono i concetti, gli ideali che identificate in queste due metropoli oggi, come allora,  tanto diverse?

Sicuramente si tratta di due città emotivamente diverse; sia per quello che richiamano sia per quello che effettivamente sono.

Parigi la vedo ridere, nonostante sia consapevole dell’amarezza della vita; Berlino ha quel misterioso sorriso che non coincide con tutta la bocca, ma rimane in attesa di potersi concedere.

Forse da un lato, vi sono delle differenze che le pongono su due estremi opposti: magari il modo di fare, di rapportarsi, di gestirsi nel trascorrere delle giornate.

Immagino Berlino severa, ma giusta; Parigi disposta a rimediare ai suoi errori.

Forse dipende dal cuore con cui le persone vi giungono, in entrambe; forse da cosa si aspettano e se sono disposte a farsi sorprendere da ciò che, invece, (ri)troveranno.

Credo che si tratti di ideali prettamente individuali; legati al sentimento del singolo che si pone in un rapporto con esse.

A me rimandano due amori diversi, ma ciò nonostante quasi complementari tra loro.

L’ultima domanda abbraccia quello che spesso viene considerato il lato “vezzoso” di un libro: la sua copertina; la scorza che se ben congegnata fa già intravedere — o meglio, assaporare— la sostanza dell’opera. Due mani intrecciate su campo azzurro; la vostra si presenta così, quasi a voler escludere il resto.

Si dice che un libro si debba mai giudicare da essa, eppure è proprio lei la prima cosa a balzare all’occhio del lettore, qualcosa che invita fra le sue pagine. E i graphic designer lo sanno bene. Parlatemi della sua realizzazione, quale immagine, quali sensazioni volevate esprimere quando avete iniziato il vostro lavoro? 

La copertina è stata, oserei dire, una delle parti più delicate dell’intero progetto.

Ho chiesto che fosse una collaborazione con la mia partner, in quanto ci occupiamo insieme di ogni aspetto grafico che riguarda il lavoro che svolgiamo tutti e tre insieme.

Volevo che fosse “a due mani” anche questo lato, per mantenere una sostanzialità di fondo: il concetto di muoversi insieme; che non bisogna intendere assolutamente come un non avere una propria individualità, ma come una possibilità ulteriore.

La base nasce da una foto che scattai anni prima; giocando con Riccardo e le mie poesie tascabili; e guardandola ebbi l’impressione che ci fosse un’altra mano ad aspettarla, poggiata sullo stesso piano.

A chi piace toccare i libri, sgualcirli un pochino e sentire come scricchiolino quando vengono aperti fino al loro stremo, (forse) si sarà accorto che le due mani hanno opacità diverse, e le due che risultano più scure, sono speculari; entrambe sullo stesso piano, intente di aspettarsi.

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