Da che mondo è mondo, è un piacere mangiarsi una pizza il sabato sera. Se fuori, però, si sfiora lo zero, allora la voglia di mettersi in ghingheri e andare in cerca di parcheggi scende ai minimi storici. Allora giungono in nostro soccorso i corrieri delle start up: JustEat, Glovo, UberEats e Deliveroo le più famose. Basta ordinare tramite un menù virtuale e la cena si presenta a casa, tramite un fattorino con bici o motorino al seguito; il tutto, ad un prezzo di consegna generalmente irrisorio, soprattutto oltre una certa soglia di spesa.
Il punto è che in molti, quando li guardiamo andar via, questi fattorini tecnologici con la power bank e la borsa termica, ci chiediamo se guadagnino abbastanza. Se siano assicurati. Come funziona il loro lavoro.
Come vengono reclutati, se lavorano sotto stress o “a cottimo”.
Innanzitutto, chiamiamo le persone col loro nome: loro sono riders, proprio perché girano in sella a una bici o a un motorino. Se non ci lasciamo distrarre troppo dallo smartphone, ci capiterà di incontrarne diversi in metropolitana, armati di borsone termico sulle spalle, mantellina antipioggia col marchio dell’azienda e l’immancabile bicicletta.
A svolgere questo lavoro sono spesso studenti che vogliono arrotondare, ma non è raro incontrare qualche fattorino che dimostra qualche anno in più rispetto agli universitari.
Senza troppi giri di parole: è chiaro come il sole che non si tratta di un impiego da assegni a tre zeri. C’è qualche azienda che mette in atto il sistema della ritenuta d’acconto sul lavoro a prestazione; qualche altra azienda stabilisce un fisso lordo per ora, che però è bassissimo e non vale la spesa del carburante utilizzato. Altri ancora sono più corretti e rimborsano, quantomeno, il carburante utilizzato per le consegne.
Oltre la valutazione dei compensi, si deve tener conto di altri fattori; ad esempio, non è sempre chiaro il tipo di rapporto lavorativo che lega i riders alle aziende proprietarie delle app. Ci sono casi in cui si è dipendenti a contratto, magari con rapporto parasubordinato, e situazioni in cui si lavora con il sistema della ritenuta d’acconto e del lavoro “a cottimo”. Qualche volta, le aziende proprietarie delle app si sono prese il disturbo di precisare che non c’è alcun rapporto di lavoro subordinato con i riders. Insomma, il lavoro del rider strizza l’occhio, per flessibilità e guadagni, alla prospettiva nordeuropea del minijob.
Inoltre, c’è il problema della sicurezza, che non può passare in secondo piano: questi lavoratori hanno bisogno di formazione specifica e di un’assicurazione speciale, che tenga conto di condizioni lavorative particolari. Corrono in mezzo al traffico anche quando piove a dirotto, anche quando si allagano le metropolitane, e, si immagina, con la determinazione a consegnare il pasto caldo e a ottenere il pagamento della loro prestazione. Si contano fin troppi incidenti mortali con queste premesse, l’ultimo a Bari, lo scorso primo dicembre.
E la legislazione? Come sempre, quando nascono degli impieghi nuovi, o quando si moltiplicano, emergendo dal mercato nero, è fisiologico che ci sia una situazione di vuoto legislativo. Lo sanno bene (certamente) i docenti che impartiscono ripetizioni private, ma anche, è bene ricordarlo, i lavoratori del sesso.
Da oltre un anno si discute di provvedimenti che mirino a regolare l’attività dei riders per mezzo di un contratto collettivo nazionale. Siamo i primi in Europa a farlo.
In estate qualcosa si è smosso: in luglio Di Maio, in quanto ministro del lavoro, ha annunciato che si sarebbero avviati i lavori per un contratto collettivo nazionale, regolare e condiviso su tutto il territorio italiano. L’annuncio risultava condiviso e ratificato anche dalle principali sigle sindacali, che avevano avanzato delle proposte concrete: ciò lasciava certamente ben sperare. Il contratto sarebbe dovuto rientrare, nei progetti di Di Maio, nel decreto dignità, con una clausola apposita.
La regione Lazio si era mossa in autonomia ancora prima, in giugno: la giunta capeggiata da Zingaretti ha stanziato oltre due milioni di euro da spendere, nel biennio 2019-2020, per garantire i diritti fondamentali di previdenza sociale, contrattuale e assicurativa, pur senza introdurre lo status di lavoratori subordinati per i riders.
Cinque mesi dopo, però, la situazione è in fase di stallo a livello nazionale: la cosiddetta “clausola riders” è stata divisa dal decreto dignità e congelata, anche in conseguenza di incontri fallimentari con i rappresentanti delle principali aziende, che si sono rivelati impreparati a lanciare proposte e a deliberare sul tema. Una situazione così non può essere lasciata esclusivamente all’autonomia (seppur lodevole) delle regioni: la partita è aperta. E mentre, a Milano, i riders si riuniscono e stilano liste di punti incontrovertibili da porre sul tavolo delle trattative, ciò che è indispensabile far notare, in questa fase, è la quantità di passaggi legali e politici necessaria perché i lavoratori siano tutelati, in modo univoco, da un contratto nazionale. Una catena di eventi complessa, sita nelle mani di chi, governando, ha il dovere di impegnarsi ogni giorno per tutelare il delicato succedersi dei passaggi che conducono, in ultima istanza, alla concessione di diritti inalienabili.
Di seguito, il link al testo della legge approvata dalla giunta Zingaretti lo scorso giugno.