Sono trascorsi due anni dall’annuncio di Luigi Di Maio: “Aboliremo la povertà”. L’allora (ma anche oggi) ministro non poteva prevedere la pandemia, che ha contribuito significativamente a ribaltare la sua dichiarazione. Infatti, la povertà non è stata abolita, bensì è aumentata. Il reddito di cittadinanza è l’esempio della politica fatta “a furor di popolo”: promettere ciò che più sta a cuore all’italiano, ovvero il denaro, e garantirgli, solo a parole, il lavoro. I centri per l’impiego avevano fallito? I navigator di certo non hanno migliorato la situazione.
E così, col beneplacito di due governi, l’assistenzialismo ha imperato in Italia, dove all’inizio ha perfino portato bene al padre politico, salvo poi farlo piombare in percentuali misere, indegne di un partito che sta al governo. Più che di cittadinanza, requisito nazional-popolare assai onorevole a sentirsi, è un reddito di popolo: distribuire soldi (spesso immeritatamente, come nel caso della famiglia Bianchi) per sperare di far presa sul popolo ed essere votati.
Nei giorni che verranno, essendo scaduto il periodo di massima fruizione, circa 1 milione di beneficiari perderà il sussidio e resterà senza pane e lavoro. Pertanto quel popolo, che ha creduto nel paese dei balocchi, resterà con le mani in mano. La colpa non è di quel popolo, che da sempre, più o meno, crede ai giochi della politica. La colpa è della politica, che a fasi alterne continua a ingannare il popolo.