Quanto ci manca Berlinguer

 “Compagni, lavorate tutti, casa per casa, azienda per azienda, strada per strada. Dialogando, con fiducia, per le lotte che rappresentiamo, per quello che siamo stati e siamo. È possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa, che è la causa della pace, della libertà, del lavoro e del progresso della nostra società.”

Padova, 7 giugno 1984. Il monito, o per meglio dire il testamento ideologico di Enrico Berlinguer viene recapitato per l’ultima volta ad una piazza gremita ed emotivamente coinvolta la quale, appurati immediatamente gli ostacoli del dolore e della fatica, invita il suo leader a terminare anzitempo l’assemblea. È un congedo teso, pregno di un’amarezza tangibile che si trascinerà per quattro lunghissimi giorni sino all’addio terreno.

A distanza di trentasei anni risulta doveroso rimarcare ciò che già all’epoca si ipotizzava con un certo grado di consapevolezza: “Un altro così non rinascerà mai più”. Un’espressione banale e con ogni probabilità inflazionata, in ogni caso capace di sintetizzare il pensiero di chi, quasi controvoglia e/o per mancanza di valide alternative, ripone la propria fiducia in ciò che resta dell’attuale sinistra. Poco o nulla.

Berlinguer, oltre che di un elevato livello di carisma – tanto fondamentale quanto inutile se applicato ad una realtà “normale”, di conseguenza utopica – era dotato di competenza e, come suggerisce Claudia Mancina, di “un’autorità che oggi sarebbe addirittura impensabile”: fattori utili alla causa del proletariato e della classe operaia degli anni Settanta e Ottanta.

Un altro mondo, un’altra filosofia, la sua, che seppur improntata sui dogmi del marxismo si discostava, sotto mentite spoglie, da alcune teorie e vedute considerate ormai anacronistiche; nonostante la rapida ed inattesa mutazione degli scenari internazionali navigasse nel limbo dell’inconcepibilità,  il PCI berlingueriano fu abile nel districarsi con naturalezza dalla marcatura a uomo di Mosca, che poco apprezzò la svolta del segretario nativo di Sassari, i cui orizzonti ideologici ben si prestavano al concetto di eurocomunismo.

Un uomo tutto d’un pezzo, protagonista politico in un decennio tragicamente complesso per un’Italia in balia del terrore, in cui il sangue scorreva sui marciapiedi un giorno sì e l’altro pure; un personaggio di rilievo che avrebbe senz’altro accolto l’invito a misurarsi con le ardue sfide interne avanzate dalla crisi economica e dalla disoccupazione; il miglior promotore della celebre questione morale oltre che degno rappresentante del popolo e di buona parte della nazione – specialmente nel ’76 – l’unico davvero in grado, dal punto di vista elettorale, di dare del filo da torcere alla balena bianca democristiana.

Un unico rimpianto – perché nella vita politica di ogni leader ve n’è sempre stato almeno uno –  dettato da visioni difformi, è figlio dello scarso feeling con Bettino Craxi e l’intero comparto socialista, secondo il parere di alcuni militanti troppo incline ai principi andreottiani: la loro unione d’intenti, magari, avrebbe potuto garantire un futuro diverso – o un destino oggettivamente migliore – nonché assicurare al Paese una nuova classe dirigente preparata, valida e fedele alla storia della sinistra italiana, scongiurando di conseguenza future fughe impreviste in quei lidi nati dalle ceneri di Tangentopoli.

Priva di ogni eccesso ideologico, la breve riflessione generale su Enrico Berlinguer rimane sempre la stessa: nessuno ha saputo raccoglierne l’eredità, qualcuno l’ha voluta addirittura usurpare. Di lui, ahinoi, resta il nostalgico ricordo.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here