Il quattro marzo scorso, in tutte le scuole d’Italia, è suonata la campanella dell’ultima ora di lezioni. Senza abbracci, senza lacrime e senza la celebrazione di quel rito che si ripete allo scadere di ogni anno. Tutti speravano di rivedersi il giorno seguente. E invece no. Il virus è entrato con prepotenza nelle aule, ha sfidato le interrogazioni e le ricreazioni. Responsabilità e libertà, ambedue sconfitte.
La scuola italiana è un insieme di diversità e virtù: tante realtà diverse, in altrettanti luoghi differenti. Il nove per cento delle famiglie italiane non possiede una connessione domestica o ne ha una lenta, sostiene l’Istat. E molti genitori non hanno il tempo per seguire i figli nella didattica online, fatta di onori, certamente, ma anche e soprattutto di oneri. In classe gli alunni, malgrado le diversità fisiologiche, si somigliano un po’ tutti: ciascuno seduto al suo posto, con i suoi libri e la sua dose di buona volontà e adolescenziale spensieratezza. In salotto e dietro a uno schermo, invece, spuntano le diversità, si fa strada la riservatezza di chi è costretto a condividere l’intimità pur controvoglia.
Non sappiamo quanto durerà l’isolamento. Speriamo, s’intende, di essere liberi il prima possibile, però nel frattempo dobbiamo fare i conti con noi stessi.
La scuola è uno dei settori più umiliati dalle maggioranze politiche degli ultimi decenni, eppure è l’unico fodero da cui estrarre le armi per difendersi dal peggior nemico: l’ignoranza.
Si riparta dall’istruzione, con un’attenzione: la campanella digitale non può essere sentita solo da chi ha le AirPods.