La televisione, il cinema, la rete hanno cambiato il nostro modo di intendere il mondo dello spettacolo; i tempi stessi d’attenzione dello spettatore medio si sono ridotti da quando esiste la potentissima arma del “mettere in pausa”. Dopo queste premesse la domanda sorge spontanea: in un mondo con tali presupposti, ha ancora senso continuare a fare teatro? Ha senso, per la nuova generazione, continuare a studiare per essere in grado di calcare le immortali tavole del palcoscenico? Ma soprattutto, che tipo di artista si richiede nel terzo millennio per restare, per così dire, al passo con i tempi?
Per rispondere a queste domande abbiamo chiesto il parere dell’Attore, Drammaturgo e Regista Lorenzo Gioielli, diplomato alla Bottega di Firenze, allora diretta da Vittorio Gassman, ed attuale Direttore Artistico e fondatore dell’Accademia di Recitazione, Regia e Drammaturgia STAP Brancaccio a Roma.
In un’epoca in cui viviamo di Cinema, Televisione ed altre piattaforme, come per esempio Netflix, ha ancora senso insegnare un tipo di recitazione strettamente teatrale, che non permette di essere rivista dallo spettatore quante volte vuole per coglierne i vari aspetti, i quali ad una prima visione potrebbero sfuggire?
Partiamo da un concetto secondo me basilare: io non credo esista una recitazione diversa dalla recitazione in sé, associabile a qualsiasi media che può venirmi in mente. La sua possibilità di essere ripetuta e quindi “fissata” in un oggetto altro che sia invariabile è un falso problema. Tu fissi qualcosa che già di per se è variabile, perché proviene da un prima ed ha certamente un dopo, lo spettatore ne fissa un punto mediano; è ovvio che vederlo più volte fa cogliere aspetti che ad una prima osservazione possono sfuggire, dunque, se non lo fa l’interprete, sicuramente è un tipo di lavoro che inevitabilmente farà lo spettatore. La mia convinzione resta ancorata al fatto che lo spettacolo dal vivo, ovviamente variabile, è sicuramente più comunicativo rispetto al resto dei media proprio per questa sua indeterminatezza di fondo; è un tentativo faticoso e frustrato di arrivare ad una forma fissa. Attraverso questa frustrazione si veicolano altri significati che esulano anche dalla volontà dell’interprete stesso che io spettatore, e questa è la mia parte attiva, posso decodificare in tempo reale mentre lo guardo senza rivederlo. Quindi avrà ovviamente su di me un influsso diverso rispetto ad un filmato che posso tranquillamente rivedere all’infinito, trovando ogni volta cose che precedentemente non avevo notato, o viceversa. Dunque il mio pensiero da spettatore teatrale deve necessariamente andare molto più veloce rispetto a quello d’uno spettatore cinematografico. La percezione da parte dello spettatore resta comunque identica in ognuno dei due casi; la differenza sostanziale è relativa al fatto che il subconscio dello spettatore e quello dell’interprete teatrale si uniscono nel vivere un momento che sanno essere unico e non replicabile, e questo cambia molto la percezione rispetto all’evento teatrale.
In quest’ottica appena esposta come si colloca la STAP Brancaccio? Che genere di artisti puntate a formare?
Alla STAP il mio sogno è quello di formare Artisti che abbiano questo tipo di consapevolezza, ossia capire che non esiste un confine tra recitazione cinematografica, televisiva e teatrale, bensì che esiste una distinzione tra recitazione autentica e non autentica. Per questo io lavoro molto sull’autobiografia. Per autobiografia intendo un concetto che non si limita agli avvenimenti che normalmente capitano ad una persona durante la sua vita, bensì a qualcosa di più esteso. Io credo che l’interprete efficace sia un essere che fa della propria autobiografia un’opera d’arte, intendendola come la percezione forte, talvolta neppure chiarissima, dell’universo nel quale è immerso, compresi ovviamente gli accadimenti personali.
Pensa che il Cinema, a differenza del Teatro, sia destinato a finire?
Non a finire, sicuramente a variare, a mutare forma. Ultimamente, per esempio, c’è un’evidente dimostrazione di ciò: i video che prima erano in 16:9 adesso stanno diventando a “formato stretto”, con il cellulare in verticale, per intenderci; questo inevitabilmente cambia il tipo di comunicazione, la visione è ovviamente diversa. Perché succede questo? Non mettendo più il cellulare in orizzontale, per questioni molto tecniche e pratiche, si tenderà inevitabilmente ad avere la percezione ed il controllo di quello che si sta riprendendo ma, dal punto di vista comunicativo, si esclude la destra e la sinistra favorendo l’alto; è ovvio che la comunicazione cambia inevitabilmente. Non credo che si arriverà mai ai film in formato verticale, ma ho la certezza che la percezione stia cambiando, come sono certo che il cinema sia destinato a variare a seconda della tecnologia che lo veicola. Ciò è dimostrato già dal fatto che noi abbiamo una definizione infinitamente più alta rispetto a cinque anni fa e visivamente vengono colti dettagli che semplicemente cinque anni fa non si riuscivano a vedere. Avremo un giorno il Cinema e la Televisione a 360°? Può darsi. Credo siano strumenti che necessariamente sono soggetti al cambiamento. Il Teatro è meno soggetto a questi cambiamenti tecnologici, lo spettacolo dal vivo è virtualmente eterno, eterno rispetto all’essere umano; tutto il resto varia a seconda della tecnologia che veicola la rappresentazione, cinematografica o televisiva che sia.