È partita l’operazione Spring Shield condotta da Erdogan verso l’esercito siriano di Assad, in violazione degli accordi internazionali. Lo “scudo di primavera” – così denominata l’offensiva turca, invero formalmente bocciata dalla Russia ma egualmente condotta – nasce da un preciso casus belli: l’uccisione di 33 soldati turchi nei pressi di Idlib, alla quale il Presidente turco ha risposto con l’abbattimento di 3 jet e con lo smantellamento di diversi convogli siriani. La città di Idlib, al confine nord occidentale con la Turchia, dopo alcuni tempi di tregua, è tornata ad essere l’epicentro di uno tsunami di sangue ad altissima intensità. Proprio ieri sono stati uccisi circa 20 soldati di Assad da parte di alcuni droni turchi. E la carneficina non sarà ancora breve.
Il piano di Erdogan è chiaro: alzare la voce sul campo e spostare l’attenzione sui suoi interessi strategici e geopolitici. Le vite umane, spezzate da anni, sono un pretesto di offensiva non solo militare, ma soprattutto decisionale in campo politico. Oggi egli minaccia di generare una crisi migratoria al confine con la Grecia; invero, a forza molte masse di civili si sono spinte via dai confini in cerca di pace. Tuttavia, è parimenti vero che la situazione in Siria è invivibile: cadaveri in strada, bambini che giocano tra le carcasse e talvolta di esse non ne fanno solo un gioco. Gli ammonimenti di Erdogan, volontariamente, sono privi di considerazione riguardo alla vita di giovani, uomini, donne costretti a fuggire dalla propria terra, dalla casa e dall’affetto, con nessuna certezza futura.
L’Europa è il primo bersaglio turco e l’intimidazione suona come una consegna di migliaia di profughi nelle mani dei Paesi membri, già in crisi sulla gestione dei migranti da anni. A Idlib gli sfollati sono stimati tra i 500.000 e 1.000.000.
Mark Lowcock, capo dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari, ritiene che “l’area intorno a Idlib sta per diventare il più grande cumulo di macerie nel mondo, disseminata di 1 milione di cadaveri di bambini”. Una crisi quasi senza precedenti, se si esclude quella del 2015, comunque siriana.
Gli attori della partita sono tre: i primi due sono impegnati nello scontro a fuoco, Erdogan e Assad, mentre il terzo è il prestigiatore col colbacco dell’Est del mondo, Putin. Il Presidente russo è uno storico alleato del leader alawita (generale Bashar al-Assad, n.d.a.), mentre intrattiene rapporti altalenanti con la Turchia, benché pacifici. Se si riflette su codesto scacchiere, si capisce con agevolezza che Erdogan ha ottenuto Idlib per via di una concessione russa e il debito dovrà essere saldato. La Russia non si è fatta da parte durante l’offensiva, come il generale turco sperava.
Ora, egli deve mantenere degli equilibri saldi per continuare a sedersi sul tavolo di quelli che contano. Due alternative si prospettano per la Turchia: scendere a patti con Putin nell’incontro di domani a Mosca, o auspicare di pescare il jolly ed evitare così un compromesso.
Ad ogni modo, una guerra va studiata e analizzata, non tanto per parlarne ciecamente, quanto per trovare una soluzione al cessate il fuoco. Pur tuttavia, non dimentichiamo, una guerra va pensata dal lato di chi la soffre di più, senza alcun interesse a sostenerla: le vittime e i civili. E di essi questo scellerato conflitto è saturo. Non nutriamo aspettative utopiche per l’incontro di domani: dal 6 marzo la guerra non cesserà. Continuerà a mietere innocenza e a strappare sorrisi, come ha fatto finora.