God save the dialect

Se oltre la Manica i patrioti inglesi intonano al grido unanime “God save the queen”, oggi, in quello che amiamo chiamare Belpaese, nella Giornata nazionale del dialetto, non possiamo che rifarci ai cugini marinari inglesi, intonando con fierezza l’inno “God save the dialect”, “Che Dio salvi il dialetto”.

Conoscere il proprio dialetto è Cultura. La locomotiva conservatorista, legata a doppio filo con le tradizioni, passa anche attraverso questa tappa, quella del conservatorismo linguistico. Conoscere, e perché no, parlare un dialetto regionale o locale, non dev’essere sinonimo di “ignoranza”, bensì di arricchimento culturale. Da che mondo e mondo l’ignorante è colui che ignora, che non sa. Conoscere più varietà di lingue rende colti e non ignoranti.

Il dialetto, inteso come varietà linguistica rispetto alla  lingua nazionale, non dev’essere mai in contrapposizione con essa. La loro, bisogna che sia una “coesistenza pacifica”, e non conflittuale. E restando in tema di termini da guerra fredda. Se l’una, la koinè nazionale, sono gli USA, e l’altro, il dialetto, la vecchia Urss, capite bene che la coesistenza non va. In quanto lingua nazionale e dialetto non possono e non devono essere due lingue opposte, in totale competizione. Esse debbono coesistere. Per fare ciò. Tornando al solito schema storico-linguistico. Se l’una, la lingua nazionale, l’italiano, sono gli USA, il dialetto dev’essere il Texas, con una propria storia sì, con le proprie sacrosante differenze, ma sempre complementare, a una lingua di stampo nazionale. Facendo un volo parabolico sull’Atlantico.

Dopo vari parallelismi di stampo statunitense, torniamo da noi, a casa nostra, quel Belpaese chiamato Italia. La prima lingua di ciascuno dev’essere l’italiano, questo è assodato. Anche in omaggio a tutti quegli studiosi che hanno contribuito nella storia all’annosa “questione sulla lingua”. Una delle querelle in assoluto più affascinanti del patrimonio letterario nazionale, della nostra identità storica, antropologica e linguistica. Dal secolo delle tre corone con il maestro Dante Alighieri, passando per la corte rinascimentale di Bembo e Poliziano, senza dimenticare l’Accademia della Crusca, e poi il Monti, l’ Ascoli, e, non ultimo, il Manzoni.

Conoscere la propria lingua nazionale è fondamentale. Se Massimo d’Azeglio a Italia Unita tuonò dal palazzo del governo: “quando faremo gli italiani?”. Ad oggi possiamo dire che l’italiano esiste, grazie anche e soprattutto a una comune lingua nazionale. L’unità d’Italia c’è stata anche sul piano linguistico oltre che territoriale. E non poteva essere altrimenti. Perché uno stato seppur grande, e unito geograficamente, con scudi e spade, non può definirsi tale, senza prima aver partorito dalle viscere della propria identità, una sua lingua unitaria e nazionale. Detto questo, percorrendo oggi, agli albori di un nuovo anno, il 2020, quel viaggio che Dante aveva intrapreso secoli fa, a bordo della sua “navicella dell’ingegno”, nell’incipit al Purgatorio, ci troviamo innanzi ad un mondo in piena decadenza, morale e culturale. Forse torneranno di moda le nazioni. Forse la globalizzazione a un certo punto si arresterà. Ma intanto, conoscere, parlare, far rivivere negli scorci paesani il dolce cinguettio di espressioni “nostrane”, è l’arma più potente che uno Stato ha di conservare se stesso.

Dunque, lunga vita ai dialetti. Lunga vita al conservatorismo linguistico. Lunga vita alle tradizioni, in tutte le loro forme, anche e soprattutto linguistiche.

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