Guerra in Medio Oriente: Rafah sola ed isolata mentre si tenta un (nuovo) accordo

La tregua nella Striscia di Gaza, che prevedeva una seppur parziale smilitarizzazione e la restituzione degli ostaggi, di fatto non si è mai concretizzata. In corso da ieri un incontro a Il Cairo per tentare una nuova intesa, mentre Israele circonda Rafah per portare Hamas alla destituzione

Rafahnon esiste più”, ha scritto su Instagram lo scrittore e studioso di Gaza Jehad Abusalim. Quella che era stata definita una zona sicura nonostante gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 risulta ad oggi, di fatto, inglobata nelle zone di sicurezza israeliane, delimitata a sud dal corridoio Filadelfi ed a nord dal nuovo corridoio Morag che le forze militari stanno allargando fino a un chilometro, puntando ad isolare ulteriormente la città creando una divisione strategica all’interno della Striscia. Se il quotidiano saudita Asharq al-Awsat ha riportato ieri, 23 aprile, la notizia dell’apertura verso un possibile accordo di 5 anni proposto da Hamas con il conseguente rilascio degli ostaggi in un’unica fase con garanzie internazionali, risultano oltre 400.000 i palestinesi sfollati e circa 300.000 evacuati dalle aree centrali verso zone considerate più sicure, quali al-Mawasi e Khan Younis, a dimostrazione che la situazione è estremamente critica sia militarmente ma specialmente a livello umanitario. Prima della guerra infatti, il seppur piccolo territorio al confine con l’Egitto (parliamo di un’area di circa 63 Km quadrati) era riuscito ad ospitare centinaia di persone, di cui 1,4 milioni di palestinesi, ossia metà dell’intera popolazione della Striscia, ma nel corso dei mesi Rafah è diventata man mano meno sicura, specialmente da quando il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha apertamente dichiarato l’intenzione di occupare la zona considerandola l’ultimo baluardo di Hamas in Palestina da eliminare. Ed infatti l’occupazione del corridoio Morag da parte delle forze israeliane avvenuta il 12 aprile 2024, zona di sicurezza tra Rafah e Khan Younis, ha provocato un ulteriore isolamento della stessa, garantendo piuttosto una forte pressione su Hamas ed interrompendo le vie di comunicazione tra le città meridionali della Striscia. Solo lo scorso mese, precisamente il 23 marzo scorso, pochi giorni dopo la rottura della tregua dunque, l’ennesima rappresaglia nella cittadina ha provocato la morte di 15 operatori umanitari mentre gli stessi erano intenti a rispondere a chiamate di soccorso nel quartiere di Tal al-Sultan. Tra di loro, otto medici della Mezzaluna Rossa oltre a sei membri dell’agenzia di Difesa civile di Gaza e un dipendente dell’Unrwa. I loro corpi sepolti, a seguito dei bombardamenti, sotto la sabbia, sono stati recuperati una settimana dopo. A nulla sono serviti cori di proteste dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Volker Turk insieme a Germania e Regno Unito uniti per la richiesta di una “indagine rapida e approfondita”, visto che la risposta dell’Idf è stata, in un secondo tempo, di smentita.

L’escalation dell’accerchiamento di Rafah

Dal 6 maggio 2024 il valico di Rafah è sotto controllo israeliano, da quando cioè Idf non ha circoscritto, come aveva preannunciato, l’attacco verso Hamas, ma ha preso il controllo del valico di frontiera tra Rafah e l’Egitto, interrompendo, inoltre, l’accesso agli aiuti umanitari nella Striscia, provocando nuovamente la fuga di decine di migliaia di persone. A giugno 2024, secondo quanto dichiarato dalle Nazioni Unite, almeno 1 milione di persone erano fuggite, considerando che circa il 16 per cento dell’area della città era stato occupato dall’esercito israeliano ed annesso all’interno del corridoio Filadelfi, la zona cuscinetto al confine con l’Egitto. Con l’appannaggio dell’inizio della tregua, molte persone hanno tentato di tornare a Rafah trovando un territorio praticamente raso al suolo. Quella che era una città che prima della guerra ospitava 280mila persone è ad oggi un cumulo di macerie dove la popolazione sta tentando, nonostante tutto, di ricominciare a costruire, nell’idea di ritrovare un’identità. Al momento l’unico accesso da Gaza per l’Egitto è chiuso, nonostante Israele abbia presentato all’Egitto un piano per l’evacuazione dei civili da Rafah con la costruzione di 15 campi profughi con 25.000 tende ciascuno lungo la costa di Gaza, ossia da Gaza City fino a Moassi, a nord di Rafah, ma la situazione resta difficile da gestire e di fatto tutto indugia mentre la prospettiva di una possibile tregua con la tanto auspicata liberazione degli ostaggi è pressoché ferma alla partenza. Le forze israeliane, che comunque non hanno mai lasciato il corridoio Filadelfi, hanno ordinato l’evacuazione di circa 100.000 persone dalla parte orientale di Rafah, ma molti civili sono rimasti intrappolati o sono stati costretti a fuggire verso altre aree già sovraffollate. Sempre secondo fonti Onu, l’accesso ai palestinesi è ormai praticamente vietato nel 70 per cento del territorio della Striscia. L’Orient-Le Jour sostiene che Israele giustifichi le sue manovre sperando di ottenere da Hamas la sua destituzione oltre che la riconsegna degli ostaggi, ma in realtà l’intenzione sarebbe quella di stabilire un’occupazione militare a lungo termine nella Striscia e di ottenere un’annessione “in stile Cisgiordania”, come scrive la giornalista Dahlia Scheindlin su Haaretz: “La guerra nella Striscia è passata in modo lento ma inesorabile dagli obiettivi puramente militari a una missione fondamentalmente politica. Come in Cisgiordania, questa missione è il controllo permanente”. Ed in effetti i segnali ci sono tutti, considerando che da quando Trump è attivo nel suo secondo mandato, come descrive Robert Geist Pinfold, che si occupa di sicurezza al King’s college di Londra, “Israele cerca di rendere Gaza meno vivibile, allo scopo di costringere un grande numero di abitanti ad emigrare”, attuando il piano strategico dato dal gabinetto per la sicurezza a fine marzo per la creazione di un “Ufficio per l’emigrazione volontaria degli abitanti di Gaza interessati al trasferimento in paesi terzi” all’interno del ministero della difesa. Il ministro Israel Katz ha chiarito che l’agenzia “opererà in coordinamento con organizzazioni internazionali e altri organi di governo in base alle istruzioni dell’esecutivo” prevedendo di controllare la sicurezza del territorio affidando gli affari civili a tecnocrati palestinesi non legati a entità politiche e con un sostegno arabo esterno. 

Situazione umanitaria ad oggi

Secondo la World Health Organization, da ottobre 2023 oltre 51.000 palestinesi sono stati uccisi, con oltre 1.500 morti registrati solo dal 18 marzo 2025, ossia da quando Israele ha interrotto il cessate il fuoco con un attacco a sorpresa che ha ucciso oltre 400 persone, tra cui 263 donne e bambini. Le condizioni sanitarie sono devastanti: ospedali senza elettricità, carenza di medicinali e cibo con la maggior parte della popolazione costretta a rifugiarsi in zone designate come “sicure” che in realtà sono sovente bombardate. E’ notizia di qualche giorno fa che anche l’ultimo ospedale funzionante è stato bombardato.

Prospettive future

Come sopra accennato, secondo quanto riferito dal quotidiano saudita Asharq Al-Awsat, ieri, 23 aprile, una delegazione israeliana si è recata al Cairo per avviare una negoziazione con Hamas. I mediatori dovrebbero presentare una bozza di cessate il fuoco che prevede una tregua di cinque anni con conseguente rilascio degli ostaggi ed il ritiro da Gaza, con garanzia da parte delle truppe israeliane in cambio dell’ingresso di aiuti umanitari. Intanto continua a salire il numero dei morti a seguito del proseguimento dei bombardamenti e la sensazione è che, nonostante gli sforzi di mediazione da parte di Egitto e Qatar, le trattative per un cessate il fuoco risultino ben lontane dal concretizzarsi. Israele insiste sulla smilitarizzazione di Hamas e sul rilascio degli ostaggi, mentre Hamas chiede il ritiro completo delle forze israeliane, la fine del blocco e garanzie per la ricostruzione di Gaza. Quel che è certo è che Rafah è divenuta ormai il simbolo della devastazione e dell’isolamento nella Striscia, chiusa dai valichi e senza accesso di aiuti umanitari con una difficile apertura verso la mediazione, con bombardamenti, specialmente notturni, che non accennano a fermarsi.

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