Drop di Christopher Landon: un nuovo gioiello targato BlumHouse

È in sala un thriller da camera tra paranoia digitale e romanticismo

Drop è un buon meccanismo di suspense che parla la lingua del presente: quella degli smartphone, dei messaggi non richiesti e della violenza di genere. Dopo Happy Death Day (2017) e Freaky (2020), Christopher Landon conferma la sua vocazione per le storie l’high-concept con una premessa all’apparenza assurda trasformata con maestria in un’esperienza cinematografica coinvolgente e inquietante.

Violet (Meghann Fahy) è una terapeuta specializzata in traumi, è una vedova che ha subito abusi e una madre single che si concede finalmente un primo appuntamento dopo anni di lutto e dolore. Il date è con Henry (Brandon Sklenar), fotografo dal fascino discreto, la location è un ristorante panoramico sopra le luci di Chicago. La serata romantica si trasforma in un incubo claustrofobico quando Violet inizia a ricevere disturbanti messaggi via AirDrop (qui denominati “digidrop” per copyright). Questi drop digitali si rivelano essere parte di un sadico gioco sadico: se Violet non obbedisce agli ordini — che vanno dalla distruzione di un oggetto all’ omicidio del suo accompagnatore — suo figlio e sua sorella moriranno. Non può chiedere aiuto, non può fidarsi di nessuno. Il tutto mentre è costretta a sorridere e recitare la parte della donna interessante in un appuntamento galante

L’uso della tecnologia come veicolo narrativo in un horror è ormai un qualcosa di codificato ma qui l’esecuzione è elegante e mozzafiato. La resa visiva è raffinata, immersiva, tanto acuta da essere in grado di rappresentare l’invisibile pressione digitale in tensione palpabile. L’ambientazione è un personaggio a sé: il ristorante, costruito appositamente per il film, è un piccolo gioiello scenografico, che richiama i microcosmi chiusi cari ad Alfred Hitchcock. Il film conosce il valore della misura, non esagera mai cercando un’economia narrativa ipnotica nei suoi movimenti di macchina e interpretazioni millimetriche. Le trovate per creare angoscia sono classiche e analogiche, come dei spotlight teatrale che circondano i personaggi nel buio.

La scrittura è all’altezza della messa in scena. L’assurdo si fa credibile, e la narrazione non deraglia mai nell’intrattenimento gratuito. Violet è vulnerabile ma determinata, straziata ma lucida, in un turbine emotivo che va dalla goffaggine del primo appuntamento all’angoscia esistenziale di una madre ricattata in lotta per la sopravvivenza. Anche in The Invisible Man (2020), sempre prodotto BlumHouse, era un racconto di persecuzione invisibile e manipolazione psicologica. Qui la tecnologia è la nuova arma dell’oppressore, e il controllo passa dalle mani che fanno male ai pop-up. La violenza si è fatta sottile, ma non per questo meno devastante. Drop funziona, pur nei suoi limiti. È un film che diverte e inquieta, che offre spunti di riflessione pur restando nel perimetro sicuro del PG-13, e che riesce a sfruttare la quotidianità per raccontare incubi che per molte donne sono la realtà.

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