L’Europa ed il problema del riarmo: il Piano Ue sulla difesa comune

Con 419 voti favorevoli, 204 contrari e 46 astensioni attraverso una procedura d’urgenza che non prevede cioè una votazione formale nel Parlamento Ue, è stato approvato il 12 marzo a Strasburgo il piano di riarmo europeo ReArm Europe che, come spiegato dalla presidente della Commissione Ursula von der Leyen, verrà illustrato la prossima settimana nel più ampio contesto del Libro Bianco della Difesa Ue.

La Risoluzione

La Risoluzione prevede non solo procedure brevi per il riarmamento e potenziamento dell’arsenale bellico europeo, ma anche lo stanziamento di 800 miliardi totali da destinare alle dotazioni militari. Accolto con favore dalla maggioranza degli eurodeputati, la guerra tra Russia e Ucraina ha dunque velocizzato la decisione verso misure immediate, particolarmente sollecitate nei giorni scorsi dal Presidente francese Macròn e dal primo ministro del Regno Unito Keir Starmer, scelta avvallata, nei suoi vari interventi di questi giorni, dalla Von Der Lyen che ha parlato di urgenza nell’affrontare un pericolo chiaro e minacce odierne sulla base di un’emergenza considerata non preventiva ma reale. Lo stesso giorno è stata inoltre votata una seconda Risoluzione, quella sul rinnovato sostegno all’Ucraina. L’urgenza è certamente stata esasperata da un lato dalle minacce di derivazione putiniana, provenienti sia dal suo endorsement oltre che dalle sue stesse dichiarazioni, poco velate, contro l’Ue. C’è da considerare che anche il famoso colloquio tra Trump e Zelensky ha preoccupato Bruxelles, considerando che l’Unione Europea a quel colloquio non è stata invitata a partecipare. Una riunione dunque in cui l’unico mediatore è stato il Presidente Trump, nonostante l’UE abbia, dall’inizio della guerra, fortemente sostenuto Zelensky, sia economicamente (con forniture militari) sia da un punto di vista mediatico. 

Il piano di riarmo: cosa prevede e perché lascia perplessi

Nella realtà dei fatti, il Piano per il riarmo è stato presentato molto velocemente da Ursula Von Der Lyen che ha parlato per soli 6 minuti alla stampa manifestando l’urgenza di una simile Risoluzione e spiegando che “si potrebbe” arrivare ad una cifra di circa 800 miliardi da poter destinare a dotazioni belliche nei prossimi quattro anni, finalizzando queste risorse a rafforzare le capacità difensive del continente Europa. Questo attraverso un meccanismo di emissione di 150 miliardi di euro in prestiti garantiti da debito comune che miri ad incrementare la spesa difensiva attraverso l’uso di possibili nuovi strumenti finanziari, come l’attivazione della clausola di deroga del patto di stabilità per aumentare il deficit massimo del 3%. Inoltre, il piano promuove la collaborazione tra gli Stati membri nell’acquisizione di equipaggiamenti militari, riducendo così la dipendenza da fornitori esterni e consolidando l’industria della difesa europea. Altro punto cardine, riguarda il rafforzamento del ruolo del Fondo Europeo della Difesa, creato già nel 2017, che sarà destinato a coordinare e incrementare gli investimenti nazionali nella ricerca per la difesa e a migliorare l’interoperabilità tra le forze armate degli Stati membri. 

Ma cosa c’è che non torna? Se davvero si vuole partire dall’inizio, si potrebbe considerare l’utilizzo della procedura di urgenza: la votazione di una Risoluzione ha carattere non vincolante ed è un atto di indirizzo: in questo caso, data la necessità di velocizzare una decisione urgente ed impellente – ma preventiva – è stata utilizzata a ragione, per scavallare, di fatto, tempistiche più lunghe ma, a ben guardare, anche per evitare eventuali voti sfavorevoli ma anche pareri vincolanti. Questo ha fatto apparire chiare le differenti visioni fra i vari Stati (che si sono riflettute anche sul voto esercitato dal nostro Paese: la Lega ha votato contro mentre il PD si è spaccato). Al di là delle motivazioni ideologiche legate ad un possibile riarmo, le considerazioni vertono principalmente sulla preoccupazioni degli Stati di assoggettarsi ad una spesa ingente ed ingerente per le singole economie: se non esiste uno Stato Europeo non può esistere una spesa europea ed ecco che i meccanismi previsti e non ancora dettagliatamente illustrati dalla Von Der Lyen passano essenzialmente per l’indebitamento europeo, ossia finanziare il Piano per il riarmo attraverso investimenti finanziati con fondi della Commissione Europea ma attraverso prestiti agli Stati (se pur con tassi agevolati). I 150 miliardi di euro del programma SAFE (Security action for Europe) infatti, prevedono un debito comune che verrà emesso dalla Commissione per finanziare eventuali prestiti a lungo termine, a cui gli Stati membri potranno ricorrere per aumentare i loro investimenti nel settore della difesa, coordinandosi tra loro con commesse e progetti che dovranno essere condivisi da almeno due governi, anche nell’ambito del programma di sicurezza militare condiviso (PESCO) finora utilizzato pochissimo. La perplessità, però, va da sè: la nostra Europa viaggia a più velocità, quindi tassi di interesse e di indebitamento possono essere maggiormente sostenuti e sostenibili da paesi come la Germania, più forte sul mercato dell’intera Europa per ciò che concerne stabilità di bilancio, ma non da altri (come anche l’Italia) che sono già fortemente indebitati, e accedendo a quei prestiti, accumulerebbero altri debiti.

L’altro aspetto da chiarire è la nuova modalità di spesa detta “Buy European”, che prevede di privilegiare acquisti da aziende europee. Il timore dei dazi imposti da Trump avrebbe spinto per interrompere, in questo modo, la dipendenza dagli Stati Uniti, punto che lascia perplessi considerando che gli Usa restano per il vecchio continente il principale fornitore di dispositivi e tecnologia in ambito militare. La Francia di Macròn insiste fortemente su questo aspetto, mentre la Germania, e in parte l’Italia, ritengono invece che questo principio rallenterebbe ulteriormente i nuovi investimenti. Spetterà alla Commissione trovare un compromesso per i 27 Stati. Per ciò che concerne poi la possibilità per i singoli Stati membri di attingere ai Fondi di coesione, anche in questo caso le modalità non sono state esplicitate, considerando che i fondi per la nuova programmazione sono già stati destinati ed una volta entrati nell’ambito dello stanziamento statale l’unico meccanismo che “rimanda a Bruxelles” detti finanziamenti è quello del disimpegno automatico. Andrebbero dunque “scardinati” dalla loro natura e ri-stanziati. Ma come?

Verso un esercito europeo?

Alla luce delle attuali tensioni geopolitiche e rispondendo alla potenziale necessità di affrontare autonomamente eventuali conflitti, la Von Der Leyen ha più volte evidenziato l’urgenza di finalizzare una reale programmazione a lungo termine per la creazione di un esercito europeo, argomento però molto controverso fra gli Stati membri, specialmente considerando l’impatto sulle democrazie nel continente. Non solo: ferma restando la necessità di una pianificazione attenta e di una reale cooperazione tra gli Stati membri, resterebbe da chiarire con quali modalità possa effettivamente concretizzarsi tale ambìto traguardo. Da un punto di vista giuridico oltre che formale, il tutto resta laconico: come verrebbe formato l’esercito? Unendo gli eserciti di tutti gli Stati membri? Creandone uno ad hoc? E se sì, su quali basi e con quali modalità? Che legittimità avrebbe? Sì, perché non esiste un piano di sicurezza comune che non preveda un esercito comune ed una difesa comune. La Nato però è al momento l’unica e la massima organizzazione (Alleanza) che fu teorizzata ed attuata successivamente alla seconda guerra mondiale come espressione di difesa occidentale, ma la stessa non risponde solo ad esigenze europee. A seguito del secondo conflitto mondiale, quando l’Europa si concretizzò come primordiale forma di unione, due furono i punti focali su cui i padri fondatori puntarono, nella definizione di quella che poi sarebbe divenuta una “unione europea”: in primis, la ricostruzione post bellica ed in secondo piano un meccanismo che permettesse una pace duratura. Per ciò che riguarda il primo punto nacque la Comunità Economica Europea basata essenzialmente su scambi commerciali convenienti fra gli Stati membri con conseguente apertura dei confini per permettere una veloce ripresa commerciale e dunque economica al fine, appunto, della ricostruzione. Rispetto al secondo punto, il Patto Atlantico del ’49, necessario a stringere alleanze occidentali per mantenere una pace duratura con manovre esclusive di peacekeeping in caso di interventi al di fuori dei confini europei, aperta all’adesione di tutti gli Stati non solo europei. Chiaro dunque che non si è mai paventata la necessità di un esercito interventista, né di regolamenti che potessero prevedere una nuova guerra globale perché questo non sarebbe mai più dovuto succedere. Perché allora tanta preoccupazione? Perché realmente è difficile prevedere gli accadimenti in questo momento storico ed è necessario attuare misure preventive, nella più larga accezione, anche militare. La minaccia non deriverebbe tanto da Trump: gli Usa sono “troppo strettamente” legati ai Paesi occidentali europei: nel nostro territorio sono presenti basi militari estremamente strategiche – poste successivamente alla II WW – e nei nostri porti circolano, sia in entrata che in uscita, merci statunitensi. Il pericolo viene dalla Russia di Putin, difficilmente prevedibile, poco affidabile, eccessivamente pretestuosa e fuori misura di contenimento, anche per Trump, il quale i suoi sforzi li sta davvero facendo. E dunque, dopo decenni di economicismo, gli euroscettici si vedono prefigurare davvero il sogno di un’Europa unita passando per la costituzione di un esercito europeo? Difficile anche solo a pensarlo, in primis perché l’Europa unita non si è mai realizzata, considerando che le leadership europee sono assolutamente governo-centriche e lo sforzo massimo raggiunto si rifà alla libera circolazione di mezzi e persone oltre che alla questione dei dazi doganali (in discussione anche questi vista la guerra dei dazi attuale con Trump) e dunque il pensiero di dover devolvere – ancora – parte dei loro sforzi economici o il sostenere una nuova spesa, nonostante l’emergenza, diventa complicato, nonostante il primo ministro belga abbia riparlato di leva obbligatoria (europea) e Macròn insista particolarmente (facendosi ormai portavoce quasi al pari – o al posto – della Von Der Lyen) di una difesa europea unificata. Creare una difesa europea al di là della (ingente e prevista) spesa economica significherebbe rivedere i Trattati europei, unificare le politiche dei singoli Stati, difficile per un’Europa che, nonostante il pericolo, è ancorata a vecchi schemi e non possiede più da decenni una vocazione bellica.

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