Esiste ancora l’eccezione in una società fluida come la nostra? Cos’è che definisce la singolarità? Difficile a dirsi. Oppure no. Sicuramente, tra migliaia di voci tutte uguali quella di David Foster Wallace sarebbe stata fuori dal coro.
Nato il 21 febbraio 1962 a Ithaca (New York), scrittore, saggista e acuto osservatore, Foster Wallace ha saputo esprimere le proprie riflessioni spudorate sulla società contemporanea, attraverso un’originale cifra stilistica in grado di coniugare ironia, arguzia e uno straordinario talento descrittivo.
La sua penna ci ha regalato ritratti profondi e densi, racconti dicotomici sulla crisi di valori che caratterizza la società dei consumi. Il suo sguardo, ironico e straniante, ci ha restituito un’immagine chiara: quella dell’essere umano postmoderno nel suo habitat ideale, immerso in una realtà fatta di piaceri effimeri e illusori, nel suo non-essere, giungendo a definire (e a criticare) quello stato di apparenza che ci spinge a rincorrere la felicità, o una sua parvenza.
È questo il segno che Davide Foster Wallace ha lasciato nelle pagine dei suoi racconti, dall’esordio nel 1987 con La scopa del sistema al capolavoro del 1996 Infinte Jest. Ma perché definirlo “genio”? La risposta è semplice. L’autore ha saputo dipingere la società contemporanea in maniera ironica: dietro ogni suo racconto si articola una dettagliata analisi sociologica, puntuale e mai scontata, che mette a nudo i difetti e le storture di una società vittima del consumismo.
Una cosa divertente che non farò mai più: un racconto allucinato della definitiva vittoria del capitalismo
Tra i numerosi capolavori dello scrittore statunitense, Una cosa divertente che non farò mai più è quello che forse più di tutti ne evidenzia l’anticonformismo, soprattutto nella versione originale del titolo A supposedly thing I’ll never do again, in cui l’avverbio supposedly (in italiano presumibilmente) lascia intendere le considerazioni dell’autore nei confronti di una vacanza che sembrerebbe divertente ma che, in realtà, non lo è affatto.
«Dicono che tutto quello che vogliono è una specie di cartolina turistica gigante»
E invece il reportage narrativo di Foster Wallace, commissionatogli nel 1995 dalla rivista Harper’s e pubblicato nel 1997, assume le caratteristiche di un vero e proprio “puzzle ipnotico-sensoriale”, fatto di situazioni caotiche e di un’umanità variegata, elementi tipici delle vacanze extra-lusso. Proprio come una crociera ai Caraibi.
Il racconto parte dalla fine. È sabato 18 marzo. L’autore si trova nel bar dell’aeroporto di Fort Lauderdale, in attesa del volo che lo porterà a Chicago. Ancora quattro ore e il viaggio sarà concluso.
È proprio in quelle ore che Foster Wallace decide di riorganizzare il suo reportage, mettendo insieme i pezzi di una settimana trascorsa a bordo della mega-nave da crociera Zenith (ironicamente ribattezzata Nadir dallo stesso autore) alla volta dei Caraibi.
Nonostante la sua dichiarata agorafobia, Foster Wallace ha volontariamente deciso di imbarcarsi, restituendoci una satira spietata sul divertimento di massa, affrontando al tempo stesso tematiche serie e profonde (la crisi di valori, il senso della vita) ma celate dietro la solita ironia:
«Ho visto spiagge di zucchero e un’acqua di un blu limpidissimo. Ho visto un completo casual da uomo tutto rosso col bavero svasato. Ho sentito il profumo che ha l’olio abbronzante quando è spalmato su oltre dieci tonnellate di carne umana bollente. Sono stato chiamato “Mister” in tre diverse nazioni. Ho guardato cinquecento americani benestanti muoversi a scatti ballando l’Electric Slide. Ho visto tramonti che sembravano disegnati al computer e una luna tropicale che assomigliava più a una specie di limone dalle dimensioni gigantesche sospeso aria che alla cara vecchia luna di pietra degli Stati Uniti d’America che ero abituato a vedere».
Wallace ci presenta fin dall’incipit la società moderna e le contraddizioni del turismo di massa, in cui il divertimento è organizzato e la vera essenza delle cose è coperta sotto una patina di apparenza.
In questo modo Foster Wallace, scomparso nel 2008, ha riflettuto sull’effetto alienante dell’apparenza schierandosi contro la massa e confessandoci che in realtà «ci sono intensità di blu anche oltre il blu più limpido» ma, spesso, non riusciamo a vederle.