The Wolf Man di Leigh Whanne—Sarà un altro successo per la Blumhouse?

In The Invisible Man il regista Leigh Whanne ha provato ad usare lo strumento del mostro cinematografico (l’uomo invisibile, appunto) come critica di uno dei mali della modernità: il maschilismo. L’horror come genere politico, il più politico dei generi e Leigh Whanne c’ha provato e il risultato non era stato niente male. Blumhouse ci fece un sacco di soldi tanto da mettere in produzione un altro progetto legato ai classici horror Universal. Infatti con Wolf Man ci riprovano, ci sono un paio di buoni spunti,ma il risultato è troppo confuso per spaventarci o farci riflettere davvero. Il film affonda sotto il peso delle sue ambizioni mal gestite e di una realizzazione dozzinale.

La storia segue Blake Lovell (Christopher Abbott), un padre e marito presente e dolcissimo ma con delle ferite interne ancora aperte. Cresciuto in una fattoria in Oregon da un padre survivalista e distaccato, dopo 30 anni l’uomo torna alla casa d’infanzia con la sua famiglia: la moglie Charlotte (Julia Garner), una giornalista più impegnata nella carriera che nei rapporti familiari, e la figlia Ginger (Matilda Firth). Naturalmente, nel giro di pochi minuti, un lupo mannaro attacca, trasformando Blake in un mostro e la casa in una prigione. Fin qui, niente di nuovo. L’idea di usare la licantropia come simbolo del trauma generazionale e della fragilità maschile è interessante, ma il film fallisce nel tradurre questa premessa in qualcosa di coinvolgente o coerente. Sarebbe stato un ottimo punto di partenza, ma Wolf Man non si impegna a fondo nella costruzione di nessun vero arco narrativo, preferendo una serie di clichè e momenti prevedibili.

Il film sembra ossessionato dall’idea di dirci che “il vero mostro è dentro di noi”, ma si rifiuta di approfondire i suoi personaggi per dimostrarlo. Charlotte, ad esempio, viene ridotta a un ruolo caricaturale: è troppo impegnata col lavoro per essere una buona madre, e questo viene trattato come un peccato capitale. I conflitti con Blake non sono esplorati a sufficienza, e il suo trauma generazionale viene lasciato in sospeso, evocato ma mai affrontato con vera intenzione narrativa.  Nel tentativo di essere un horror “intelligente”, Wolf Man si abbandona a metafore usurate e retoriche datate, come l’idea che un “buon padre” sia la risposta alla violenza patriarcale. Un concetto non solo anacronistico, ma che appare terribilmente miope nel contesto di una storia che tenta – senza successo – di affrontare temi come il maschilismo e il ciclo della violenza. La sceneggiatura manca di coerenza, i personaggi sono sottosviluppati e il film stesso non sembra sapere cosa vuole essere: un horror viscerale o un dramma psicologico? Nel tentativo di essere entrambe le cose, Wolf Man finisce per non essere né carne né lupo. Non c’è un’inquadratura alla luna, non ci sono proiettili d’argento né altro che appartiene alla mitologia del mostro dell’Universal. Crudo (un po’ di gore lo troviamo) ma deludente, privo di spaventi e terribilmente banale. Un disastro totale.

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