USA: Hell to pay, gli orizzonti della dottrina Trump 

Nella sua recente conferenza stampa tenutasi nello scenario di Mar-a-Lago, il Presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump ha reso edotti i media internazionali di diversi annunci che sono risultati particolarmente impattanti in virtù del loro carattere roboante e perentorio. 

Il tempismo di questi annunci, effettuati a cascata all’interno di una sola conferenza stampa assai vulcanica, non è casuale e rientra pienamente nello stile di Trump; non solo a livello comunicativo, ma anche e soprattutto di gestione della politica estera. 

Alcune premesse necessarie 

Quando ci si accinge a studiare la politica estera di un particolare Stato, o di un particolare individuo come il Presidente degli Stati Uniti, bisogna sempre tenere a mente alcuni concetti analitici fondamentali. 

In primo luogo è essenziale conservare la cosiddetta avalutatività tanto cara agli scienziati politici, questo perché bisogna essere capaci di riconoscere le evidenze empiriche a prescindere dalle nostre opinioni sui fatti e sui soggetti coinvolti. Sembra una precisazione scontata, ma quando si parla di personaggi divisivi come Trump è sempre utile da ricordare. 

In secondo luogo occorre pensare che esistono molti studi che intendono analizzare l’uso razionale dell’irrazionalità. In altre parole, ci si è chiesti se fingere di essere “irrazionali” possa condurre a risultati positivi in politica estera, ovviamente anche in base ai propri obiettivi, le proprie risorse e il proprio potenziale. 

Dalle parole ai fatti? 

Proprio l’ultima considerazione ci consente di ragionare sulla conferenza stampa di Trump. Il Presidente eletto ha fatto numerosi annunci, ma non è detto che intenda applicare alla lettera tutto ciò che ha dichiarato. O, più probabilmente, dietro ad alcuni annunci si nascondono intenzioni che possono avere sviluppi più laterali e meno impattanti dell’aspettato. 

Nel caso della Groenlandia è vero il fatto che si stia ventilando l’ipotesi di un referendum per l’indipendenza. Se connettiamo questo alla nuova importanza che lo scenario artico sta via via assumendo a livello geo-economico e geo-strategico, possiamo facilmente arrivare alla conclusione che il carattere di influenza regionale della Groenlandia divenga significativo. Difficile dire se davvero possa essere annessa agli Stati Uniti, anche solo per un discorso procedurale legato al diritto internazionale che pure non impedirebbe una simile circostanza. Ma se invece, come sembra più probabile, gli Stati Uniti si limitassero a garantire la protezione e la difesa del territorio in cambio di una vicinanza economica all’Occidente la partita cambierebbe. E la Cina, che in Groenlandia aveva già perso terreno almeno dal 2018 sempre a causa di Trump, ne uscirebbe svantaggiata. 

Se a questo si aggiunge l’elemento di Panama ecco che giungiamo ad un chiaro disegno di ripresa che vuole probabilmente rilanciare una spinta egemonico-competitiva contro l’espansionismo cinese. E anche qui non ci sarebbe niente di nuovo, a conti fatti. Al contrario di Pechino che non ha ancora terminato la sua ascesa e già si trova a far fronte ad alcune difficoltà, gli Stati Uniti, nonostante tutto, hanno ancora carattere di potenza globale; dunque non hanno bisogno di una politica estera espansionista bensì espansiva, una differenza sottile ma importante. 

Per attuare una politica estera espansiva è sufficiente essere capaci di minacciare, e dunque di esercitare un elemento di deterrenza. Immaginiamo tutto questo all’interno di una struttura fortemente leaderistica come quella statunitense, dove il leader appare intenzionato a spingersi oltre limiti che normalmente non verrebbero superati, e lo schema diventa più chiaro. Si chiama Teoria del Pazzo, e rientra esattamente negli studi sull’irrazionalità in politica estera che si menzionava all’inizio. Alcuni sostengono che Trump l’abbia impiegata al tempo della sua prima amministrazione, e che tornerà a farlo. La conferenza stampa di Mar-a-Lago sembra essere un ulteriore indizio a favore di questa tesi. 

Un abile negoziatore

Il risvolto interessante di questa teorizzazione è che, se in qualche modo confermata, consentirebbe di individuare una sorta di schema predittivo applicabile alla presidenza Trump in materia di affari esteri. Ovviamente non si tratta di modelli sempre ottimali, ma sicuramente i risultati possono essere costruttivi. 

A Trump si possono contestare molte cose, ma è un fatto che si tratti di un abilissimo negoziatore. Una qualità che lui, e sicuramente chi lo consiglia, possiede è quella di essere consapevole dell’enorme potenziale a disposizione degli Stati Uniti in termini strategici e tattici; così come degli effetti che può causare facendo uso di quello stesso potenziale. 

Chiunque abbia ascoltato i suoi discorsi si sarà sicuramente accorto di due cose. Trump fa spesso riferimento alle varie questioni in termini di “investimento”, cioè parlando di costi e di ricavi. Si riferisce agli sforzi che gli Stati Uniti hanno fatto per una specifica questione e a ciò che ne hanno o non hanno ottenuto per diretta conseguenza. Oltre a questo non ha mai paura di minacciare l’uso della forza. Proprio il concetto di minaccia, che non comporta necessariamente quello di attuazione, appare fondamentale. In una intervista, Trump raccontò che quando Kim Jong-un minacciò l’uso del nucleare lui rispose allo stesso modo, ma aggiungendo che “il pulsante sulla mia scrivania è più grande e funziona meglio”. Appunto, uso della forza e consapevolezza del proprio potenziale. 

Hell to pay 

Per tornare alla recente conferenza stampa, è stato interessante il fatto che Trump abbia ribadito le sue dichiarazioni connesse alla questione degli ostaggi israeliani. Poco tempo prima aveva infatti dichiarato che se non vi fosse stato il rilascio prima del suo insediamento:”… There will be all hell to pay… Those responsible will be hit harder than anybody has been hit in the long and storied history of the United States of America…”. Sulla stessa linea le dichiarazioni di Mar-a-Lago:”… All hell will break out…”.

Sembrano frasi venute fuori più da un film d’azione che da una conferenza stampa presidenziale, ma sicuramente hanno raggiunto il loro obiettivo comunicativo. Ovviamente, anche qui, le conseguenze effettive andranno valutate empiricamente; ma a prescindere da questo appare chiaro l’approccio che la prossima amministrazione seguirà in materia di politica estera. Dovremo aspettarci risposte molto più muscolari, fedeli ad una rinnovata ricerca di competitività che sposa in pieno il realismo isolazionista di Trump e dei suoi seguaci. Se è vero, come scrive Foreign Affairs, che Trump potrebbe prendere spunto da Reagan anche per gestire le questioni internazionali; allora potremo sicuramente intravedere una nuova Guerra Fredda tra Stati Uniti e Cina dai risvolti sempre più intensificati e dove equilibrio di potenza e deterrenza risulteranno essere fattori decisivi. 

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