Recensire Leopardi o emendare Sergio Rubini? Al cinema l’ardua sentenza
Se siamo oggi arrivati a contare il 2025, è perché finora abbiamo contato sull’eredità di una istituzione romana tradotta in tradizione annalistica cristiana. Siamo dunque tutti consapevoli che sono trascorsi ad oggi 2025 anni dopo la nascita di Cristo.
Ma essere consapevoli non significa certo essere d’accordo che 2025 anni fa nacque veramente Nostro Signore, dal momento che se così fosse crederemmo ancora Dante come “il ghibellino fuggiasco”. E oggi le nostre più autorevoli cariche hanno fugato questo dubbio, peccando della convinzione che invece Dante fosse di destra.
Conoscere, credere e convincere erano le tre actiones principali della Retorica, oggi lo sono invece unificate nella Ricerca. Una ricerca che si serve di ogni mezzo purché il suo oggetto appaia la Cultura.
Il Cinema è stato uno dei primi mezzi in Italia per la ricerca culturale promossa dallo Stato, specialmente lo fu durante la presidenza di Andreotti.
È stato anche per questa sua versatilità più volte uno strumento di propaganda pubblica, e dunque di distorsione della narrazione di alcuni fatti storici.
Quando però la propaganda ha cessato maggiormente oggi di aderire al cinema e tuttavia in esso sopravvivono fenomeni di distorsione della storia, allora significa cancellarla dalla nostra responsabilità.
Si è dibattuto negli ultimi anni di una ignominiosa “cancel culture”, spesso legata a un “pretestuoso politicamente corretto”. Ci saremmo dimenticati però della possibile associazione allo “storicamente corretto”, prima che uscisse il nuovo film di Sergio Rubini Leopardi. Il poeta dell’infinito, una miniserie tv divisa in 2 puntate, prodotta da Rai Fiction, IBC Movie, Rai Com, e Oplon Film.
Trasmessa il 7 e 8 gennaio su Rai 1 insieme al sostegno di Apulia e Marche Film Commission, la miniserie ha proiettato 145 minuti di un Giacomo Leopardi un po’ più che favoloso, ma “miracoloso”. Il miracolo più grande di questo giovane Leopardi narrato da Rubini è la sua gobba rimossa in quanto eversiva dall’immagine della sua poesia.
“Noi siamo partiti da una idea, che è quella di raccontare non la morfologia del corpo di Leopardi, non la sua gobba, perché ci sembrava una identità misera quella della gobba. Abbiamo cercato di racontare invece la vitalità del suo pensiero, l’attualità del suo pensiero”.
Queste le parole rilasciate alla stampa dal regista della miniserie durante una intervista pochi giorni prima della trasmissione in rete Rai.
Ma non è tutto ciò a soddisfarci della sua dichiarazione autoriale, quanto quello che aggiunge in seguito:
“Leopardi non è stato compreso dai suoi contemporanei perché come tutti i poeti e pensatori è stato veggente. Ha parlato più che altro agli uomini del 2000 che non agli uomini dell’800…Poi c’è un pensiero potente in una delle poesie più famose di Leopardi, che è L’infinito. Leopardi ci dice che se c’è un ostacolo, in questo caso una siepe che si frappone tra noi e i nostri desideri, con la forza del pensiero, con la forza dell’immaginazione possiamo riuscire addirittura a raggiungere l’Infinito”
Rubini che sempre in questa occasione definisce Leopardi “una icona pop”, afferma che “il poeta della eterna giovinezza”, “il poeta della speranza” deve essere consegnato alla storia come un giovane, e lo fa, confessa, proprio sull’orma della sua “stella polare” Amadeus , un film in cui Forman “raccontando una menzogna” è riuscito a raccontare “l’idea del mondo di Mozart, e la sua musica, e renderla pop”.
Rendere “pop” dunque il pensiero di Leopardi, e non lasciarlo “di nicchia”, come “qualcosa che a che fare solo col mondo della scuola”, attraverso non una cronologia e una morfologia, ma solo attraverso l’idea del suo pensiero.
Una contraddizione programmatica più stridente di questa era sia inattesa presso il pubblico spettatore sia inimitabile presso la regia di un altro autore.
A partire da una morfologia dichiarata trascurata per facilitare l’immagine di un Leopardi teso alla Bellezza e non al Pessimismo scolastico, si slacciano le fila di un gomitolo grande ma senza nodo.
Tradurre il pensiero di Leopardi a un largo pubblico è specchio di una volontà mirabile e nobile, ma solo se la traduzione non opera una riduzione, anziché una equivalenza semantica.
Al gesto che per Lukacs era il più difficile momento di vita di un autore che si fa uomo, quale la traduzione, non è presupposto un pregiudizio del testo per la sua immagine, quanto più uno sforzo ermeneutico del testo per l’immagine.
Ignorare la presenza di uno dei connotati che non sono stati affatto ritenuti nel netto argine fisionomico del Leopardi, mentre hanno plasmato da dentro la sua intera morfologia dello spirito, significa proprio negare la forza umana dell’immaginazione di fronte al visibile, che è quanto Leopardi ha difficilmente espresso propio nella sua ‘autografia poieutica’.
Rimuovere la gobba non. È l’esatto corrispondente del “fingersi” il mare dell’infinito oltre la siepe. È l’esatto corrispondente invece dell’estirpare la difficoltà visiva, percettiva e intellettuale dell’ostacolo della siepe su quell’ermo colle che avrebbe dovuto costituire il punto di focalizzazione zero per ciascuno spettatore che veramente voglia avvicinarsi a conoscere Leopardi.
Conoscere la poesia di Leopardi non disuguaglia conoscere la persona di Leopardi, specialmente in uno dei casi come questi, in cui la Poesia è nata proprio dalla fisionomia, ovvero dalla “legge della physis, della Natura”.
Conoscere le stringhe materiche della Natura di Leopardi, aiuta ad aprire meglio la nicchia della sua Poesia a un pubblico estromesso a forza da una storiografia proprio per la sua carica eversiva e antinomica con la nostra Civiltà.
Ma per esprimere quel che Rubini chiama a torto “spregiudicatezza” del Leopardi, si commette l’altro torto implicito del costringere il verosimile al simile.
Raccontare Leopardi in una rete così ampia e larga come quella della Rai attraverso il dispositivo narrativo fiabesco del simile, per il quale un Leopardi senza deformità naturali è simile a un Leopardi bel cantore, soltanto questi capace di cantare la Bellezza, equivale a diffondere la gigantografia di un poeta che per il suo brutto «ammanto» non potrebbe essere il vero autore di quella Bellezza di cui lo si voglia comunque “altro autore”.
L’opera di Rubini è una delle già sentite odi alla Bellezza truccata, filtrata, incapace di esprimersi nella sua originale virtù intellettuale. A Rubini sfugge la fonte scritta dal cardinale Mai per cui Giacomo Leopardi era un bellissimo giovane, dal viso dolce, dai lineamenti delicati, ma già consumato dalla sua stessa bellezza, così come per la ninfa Eco rimasta essa nella sua singola voce, che sopravvive infine, sopraggiunta la cecità a Napoli, nella sua lotta titanica all’Infinito.
Bisogna dunque recensire il vero Leopardi o emendare il vero Rubini? La regia si affidi qualche volta alla filologia, e acquisirà non solo il verosimile per la fiction, ma anche il senso oggi della sua vera krisis.