Durante la seconda giornata della Fiera della piccola e media editoria Più libri più liberi nello spazio curato da Repubblica-Robinson si è tenuto un dialogo fra la linguista Vera Gheno e la storica Vanessa Roghi. Al centro della conversazione fra le due studiose un quesito fondamentale: la lingua è un varco che permette l’accesso a una conoscenza fruibile a tutti o un museo il cui ingresso è riservato solo a pochi eletti?
La risposta non può – e forse non deve – essere una sola a causa delle numerose possibilità che la lingua stessa mette di fronte a chi la usa: giace proprio qui il discrimine che potrebbe fornire gli elementi per rispondere in un modo o nell’altro. La lingua, di per sé, non è portatrice di nessun valore intrinseco, semmai viene caricata di significati ulteriori in conseguenza all’utilizzo che ne fa il singolo individuo o la comunità di parlanti.
Essa può talvolta diventare un marchio per identificare un’alterità: le civiltà dell’Antica Grecia tacciavano come “altro” chiunque parlasse una lingua diversa dal greco, tanto che il termine barbaro deriva dal greco bárbaros e indicava qualcuno che parla balbettando e pertanto incapace di farsi capire a causa della diversità linguistica.
La lingua, dunque, se da una parte trasmette la forma base del sapere, dall’altra può anche trasformarsi in uno strumento al servizio del potere e quando la grammatica è asservita a questo scopo tende a un’autoconservazione asfittica ed escludente. Chi non ha gli elementi per analizzare criticamente ciò che gli viene proposto corre il rischio di essere manipolato da chi invece maneggia con abilità gli strumenti del linguaggio. Basti pensare al modo in cui l’informazione viene somministrata quotidianamente dai giornali, dalla televisione, dai social e da tutte le altre piattaforme possibili: senza competenze adeguatamente formate e allenate non solo è assente in chi fruisce l’informazione un filtro per discernere un uso neutro del linguaggio da un uso finalizzato a manipolare, ma talvolta non vi sono proprio le basi per comprendere in assoluto la lingua.
In tal senso Manzoni ci dà un illustre esempio di lingua sfruttata per condizionare chi non ha gli strumenti per difendersi: il “latinorum” che egli mette in bocca ai personaggi più colti per imbrogliare e confondere i più umili non è affatto sparito ma continua a vivere, per certi versi, nei discorsi della burocrazia, dei politici e di un’informazione tendenziosa, per citare solo alcuni esempi.
La lingua in questi contesti smette quindi di essere un varco per accedere liberamente alla conoscenza e diventa un museo inaccessibile ai più, dentro al quale la norma è custodita in teche infrangibili. Per renderla nuovamente fruibile a tutti sarebbe necessario aprire le teche o, addirittura, distruggerle per tornare a discutere dell’essenza della lingua e interrogarsi tutti insieme sulla sua natura.