Peter Grimes è un’opera composta da Benjamin Britten nel ’44 su libretto di Montagu Slater, tratto dal poema The Borough di George Crabbe.
Fatta eccezione che per i pochi abbonati che, nel 1961, hanno avuto la possibilità di assistere alla prima romana dell’opera e per coloro che l’hanno ascoltata nel 2013 a Santa Cecilia in forma di concerto, per la maggior parte del pubblico del Teatro Costanzi il Peter Grimes è stata una novità assoluta che è stata accolta – ci riferiamo alla recita del 13 ottobre – con un coinvolgimento così entusiasta da smentire le voci infondate di una presunta avversione del pubblico italiano nei confronti delle opere del Novecento.
La storia, ambientata in un villaggio di pescatori sulla costa orientale dell’Inghilterra, si configura come una tragedia moderna: ad essere messe in scena sono la follia e l’emarginazione del povero marinaio Peter Grimes che rivive l’indagine sulla morte di un giovane mozzo dalla quale è stato assolto per mancanza di prove, nonostante le accuse violente, le meschine congetture e gli insinuanti pregiudizi della comunità del villaggio, pronta a condannare chiunque non rientri nel cerchio della propria angusta e ipocrita morale.
Lo spettacolo è una coproduzione fra i teatri d’opera di quattro capitali europee: ha esordito a Madrid nel 2021, poi è stato visto a Londra nel 2022, a Parigi nel 2023 e ora approda a Roma. La regia è di Deborah Warner e con lei hanno lavorato Michael Levine per le scene, Luis F. Carvalho per i costumi e Peter Mumford per le luci. Il carattere scarno e asciutto della regia è rivendicato dalla stessa Warner, che spiega: “la povertà è un elemento essenziale qui e il villaggio di pescatori immaginato da Britten è un posto dove la vita è molto dura e pericolosa. Si affaccia sul Mare del Nord, pieno di scogli affioranti, affilati, senza porti. Non è una dolce, piccola comunità di pescatori, è una realtà stressata. Ho scelto la contemporaneità perché voglio che questo arrivi dritto a tutti. Nell’opera è facile che scene o costumi d’epoca possano indorare la pillola, sentimentalizzare la cruda realtà della povertà e del disagio. Io non lo volevo”.
Alcune atmosfere evocate visivamente ricordano molto il cinema espressionista degli Anni Venti: ne è un esempio il processo a cui assistiamo nel prologo, che è rappresentato a livello registico come un incubo di Peter, circondato da figure ostili vestite di nero che puntano contro di lui la luce di torce elettriche. A venire in mente sono i film di Murnau e Lang, e in particolare quegli squarci inquietanti in cui i personaggi, illuminati dai riflettori, proiettano per pochi istanti ombre gigantesche sulla parete di fondo. Oltre che di raffinate citazioni cinematografiche la regista è anche creatrice di intensi momenti di poesia visiva: è il caso della scelta di far volteggiare nel vuoto i due giovani mozzi della cui morte Peter è accusato, prima l’uno e poi l’altro, a rappresentare la loro inesorabile discesa nel fondo del mare. Sorte condivisa dalla barca di Grimes, che vediamo galleggiare in alto all’inizio dell’opera e che ritroviamo più avanti ridotta un relitto abbandonato sulla spiaggia del palcoscenico. Ma l’acme registico la Warner lo raggiunge nella scena della taverna, che si dispiega agli occhi dello spettatore come un affresco spietato che ritrae con pennellate aspre e potenti la fauna umana che popola il villaggio, che si muove con ritmo teatrale di ferina violenza e rapidità.
Al pari della regia, anche la direzione di Michele Mariotti si caratterizza per la sua rapidità e violenza, temperate però da una grande limpidezza interpretativa: il direttore riesce infatti ad essere coerente con tutti i cambi espressivi delle scene e a rendere lo spessore sinfonico dei sei interludi, con risultati di grande suggestione sonora. L’orchestra romana, da parte sua, risponde magistralmente alla bacchetta di Mariotti.
Il formidabile tenore Allan Clayton, nei panni del protagonista, incarna perfettamente, sia a livello musicale che attoriale, un Peter Grimes così credibile da risultare disturbante nella sua angosciosa trasandatezza: l’interpretazione è guidata da un’estrema sensibilità, supportata da uno strumento vocale in grado di trionfare su tutte le sfide sfide della partitura di Britten.
Il soprano Sophie Bevan, di voce molto bella e di bravura non comune, interpreta alla perfezione una Ellen umanamente angelica, dagli accenti materni con il giovane mozzo e compassionevoli nei confronti di Grimes.
Simon Keenlyside è un Capitano Balstrode di gran classe. Eccellente poi Catherine Wyn-Rogers nella parte di Auntie, la “zietta”, così come il resto del numeroso cast, totalmente anglofono, che si trova in totale comunione di intenti musicali e attoriali con il direttore e la regista.
Anche il coro, diretto da Ciro Visco, ha dato una grande prova delle proprie capacità scenico-musicali: riuscire a trovare gli accenti giusti per dare voce alle gradazioni di disprezzo che la comunità prova nei confronti di Peter Grimes mentre si compiono concitati movimenti scenici, il tutto passando attraverso un’ampissima estensione vocale, ritmica e agogica è segno di una solida preparazione musicale e un ammirevole lavoro di coesione.
Lunghi minuti di applausi hanno confermato il successo dello spettacolo.