Il contributo di Cesare Pavese all’editoria Italiana

In occasione della nascita di Cesare Pavese, avvenuta il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, si ricorda il contributo dell’autore all’editoria italiana, diventato uno dei cosiddetti “letterati editori“. Quest’ultima espressione nasce con Alberto Cadioli per definire le figure di letterati e scrittori che hanno partecipato alla storia dell’editoria italiana del Novecento, tra cui lo stesso Pavese ma anche Italo Calvino, Elio Vittorini e Natalia Ginzburg. Nel saggio di Cadioli, pubblicato per la prima volta nel 1995, si sottolinea il legame che si crea tra la storia della letteratura e dell’editoria, ma anche l’intrecciarsi delle vicende personali di questi autori con il lavoro editoriale, si pensi ovviamente soprattutto ai loro pensieri politici.

Il contributo di Cesare Pavese all’editoria italiana si afferma a partire dal 1933 quando, trasferitosi ormai da anni a Torino, partecipa alla nascita della Giulia Einaudi. All’epoca la casa editrice torinese era appena nata e in un contesto come quello degli anni della guerra, il lavoro editoriale, la ricerca degli autori, diventano più complessi. Pavese venne assunto definitivamente il primo maggio 1938, diventando uno dei grandi protagonisti dello Struzzo.

Pavese si divide in diverse mansioni all’interno della casa editrice. Dapprima redattore, poi quando nel 1940 Leone Ginzburg venne mandato al confine, Pavese assunse il ruolo di direttore editoriale. Nel 1941 si inaugurò la sede romana della Giulio Einaudi ed egli dal ‘43 dovette più volte spostarsi da Torino a Roma.

Pavese è una delle voci delle riunioni del mercoledì presso la casa editrice e dai carteggi di queste ultime ma anche dalle innumerevoli lettere scambiate con Vittorini, ne scaturisce un intellettuale coltissimo, attento alle esigenze dei lettori. Nei manoscritti Pavese ricercava la presenza di profondità e tutto ciò che pretendeva anche dal suo stesso lavoro: produttività severa, rigorosa, concreta, e una operosità meticolosa, instancabile, tenace.

Come editor di narrativa poteva assumere toni bruschi ma allo stesso tempo cauti, soprattutto nei contesti di rifiuto di un’opera. “Il lavoro ben eseguito, la pagina asciutta, diretta ed essenziale, la tecnica, ultima dea che ispiri il tragico uomo occidentale”: queste erano le indicazioni nel suo lavoro come editor.

Tuttavia il suo principale interesse non era la narrativa, bensì per i classici e per i saggi di antropologia. Da quest’ultimo interesse nasce la Collana viola nel 1945 da uno scambio di idee tra lo stesso Pavese ed Ernesto De Martino. Nel 1957 la collana venne trasferita alla Boringhieri. Pavese con il suo lavoro di direttore di collana, introdusse nell’ambiente culturale italiano argomenti come l’etnologia e la storia delle religioni, la psicologia religiosa e lo studio dei dislivelli culturali. La Collana viola non fu solo motivo di innovazione ma anche di scandalo poiché i nomi proposti facevano parte di una cultura definita irrazionale e pericolosa.

Il lavoro di Pavese è costituito anche da una forte ironia, presente anche negli scambi epistolari sia con gli autori sia con i collaboratori della casa editrice.

Alla morte dell’autore, avvenuta per suicidio nel 1950, è Natalia Ginzburg a darne un ritratto completo soprattutto dal punto di vista letterario e editoriale, ma soprattutto umano. Dal suo racconto emergono tratti come serietà, estremo rigore e dedizione.

Questo è ciò che lascia Cesare Pavese alla letteratura e all’editoria italiana, di cui diventa uno dei maggiori protagonisti.

Aveva sempre, nei rapporti con noi suoi amici, un fondo ironico, e usava, noi suoi amici, commentarci e conoscerci con ironia; e questa ironia, che era forse tra le cose più belle che aveva, non sapeva mai portarla nelle cose che più gli stavano a cuore, non nei suoi rapporti con le donne di cui s’innamorava, e non nei suoi libri […] Nell’amore, e anche nello scrivere, si buttava con tale stato d’animo di febbre e di calcolo, da non saperne mai ridere, e da non esser mai per intero se stesso: e a volte, quando io ora penso a lui, la sua ironia è la cosa di lui che più ricordo e piango, perché non esiste più: non ce n’è ombra nei suoi libri, e non è dato ritrovarla altrove che nel baleno di quel suo maligno sorriso.

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