Dopo neanche due anni dall’incarico, Giorgia Meloni spunta già la sua agenda principale: le riforme. Dal premierato all’autonomia differenziata, passando per la riforma della giustizia (la più urgente, ma anche la più rimandata), vincono Fratelli d’Italia e Lega che si avvicinano all’epilogo delle rispettive più grandi battaglie. Tuttavia, quello che odora di rivoluzione e cambiamento, che col terminare dei cicli in ogni Stato dovrebbero attuarsi, potrebbe nascondere dei punti critici.
Se vogliamo partire da una riflessione di respiro democratico, visto che l’ondata di riforme viene annunciata come un toccasana per la democrazia, dobbiamo guardare a cosa pensa il popolo sulle riforme, in particolare sull’autonomia. Uno studio demoscopico condotto da Noto Sondaggi rileva che il 45% degli italiani non approva una riforma che dia la possibilità ad alcune regioni a statuto ordinario di avere autonomia su materie chiave, tra cui la sanità; il 35% è invece favorevole. Viene visto, infatti, come un provvedimento lesivo del Mezzogiorno, già indietro rispetto alle regioni del Nord. Si percepisce anche l’incoerenza di alcuni governatori del Carroccio, laddove affermano che sia più importante occuparsi del settentrione che traina il PIL del Paese, mentre gli stessi, altrove, inneggiano alla democrazia e all’Italia che sarà più unita. L’argine a derive separatiste saranno i Lep, ossia i criteri che determinano il livello di servizio minimo da garantirsi in modo uniforme sul territorio nazionale; prima si dovranno definire questi livelli, poi si potrà procedere con l’autonomia, per le regioni interessate.
Dall’altra parte, il premierato. Cioè principalmente l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Quirinale non nomina più il premier, non può più intervenire nelle crisi di governo; stop ai governi tecnici e abolizione dei senatori a vita, a eccezione degli ex presidenti. Poche righe per capire già la portata di questa riforma, dal carattere costituzionale. Definita “la riforma delle riforme” da Fratelli d’Italia, è un limite, checché se ne dica, ai poteri del Capo dello Stato, l’hanno ammesso anche gli stessi Gianni Letta e Marcello Pera. Risulta evidente la disparità di poteri tra un premier eletto direttamente dal popolo e un Capo dello Stato eletto sempre dal parlamento: se la democrazia, che è legittimazione di potere, viene dal basso, si capisce quanto significato assuma il presidente del Consiglio.
Da ultimo, la riforma della giustizia, che ancora deve arrivare in Aula. Se dovessimo tripartire le riforme tra le forze di governo, potremmo affidare questa sfida a Forza Italia, che per ora è indietro rispetto ai cavalli di battaglia degli alleati. Peccato, perché davvero sarebbe questa la riforma più urgente e priva di ogni potenziale rischio – a parte le lamentele dei magistrati, comprensibili perché finalmente riceverebbero un limite da non oltrepassare con le loro azioni talvolta politiche.
In due giorni, così, il governo si rafforza enormemente, dopo aver incassato i sì delle riforme. Che ben vengano, attenzione: chi legge non creda che da queste righe arrivino messaggi stantii “perché la nostra è la Costituzione più bella del mondo”. I tempi cambiano, le riforme si rendono necessarie. Si auspicherebbe che siano però condivise, sopratutto quelle di rilievo costituzionale, e non siano ripicca di partiti al governo. Ricordiamoci, infine, l’esito politico di Matteo Renzi, che a furia di correre troppo è inciampato sui suoi stessi passi. Perciò attenta, Giorgia.