La campagna elettorale per le elezioni europee entra nel vivo. Saranno elezioni dall’importanza cruciale per il futuro del continente, perché da giugno si capirà come vorrà sopravvivere l’UE alle sfide. Il dato che ci preme sottolineare, in questa sede, è ancora una volta la mancanza di lungimiranza della nostra classe politica. La campagna è iniziata nel peggiore dei modi: nessuna proposta reale (salvo piccole eccezioni), non si parla di politiche, ma di politici, si discute di uomini e donne, non di valori per l’Europa del futuro.
Ecco che diventano centrali, rispetto al dibattito publico, le figure di Roberto Vannacci, Ilaria Salis, Giorgia Meloni che si candida – repetita iuvant: è presidente del Consiglio dei Ministri – e tiene un discorso di 70 minuti intriso di propaganda, eccetera. Si parla del generale Vannacci in maniera così tanto forte, che la sua campagna elettorale quasi viene pagata e sostenuta da avversari politici e mediatici, al punto che lui può limitarsi al minimo indispensabile. Al netto di affermazioni scabrose su disabili, oltre a quelle precedentemente asserite in merito alla comunità LGBT, e al “Mussolini statista”, tutte meritevoli di dibattito seppur limitato, quanto sarebbe più serio lasciar stare Vannacci? Lasciarlo, ovvero, alle sue idee arcaiche, da caserma, prive di futuro ed evitare di dargli tutto lo spazio che gli viene dato. Anche perché i programmi tv hanno un certo numero di ore di trasmissione da coprire: lo spazio che si dedica a Vannacci si toglie a ciò che veramente conta nell’informazione sulle elezioni europee. Idem Ilaria Salis, che si candida con la speranza di essere eletta e tentare di uscire dal carcere. In questa sede abbiamo più volte difeso la Salis dal vergognoso trattamento che l’Ungheria le sta riservando, ma la candidatura non è la via di fuga più giusta.
Contrariamente a questo, i canali di comunicazione dovrebbero ospitare dibattiti di promozione dei valori europei, ricordare chi l’ha voluta, menzionare Ventotene e quanta sofferenza fu patita da quelli che sognavano un’unione tra Stati che potesse assicurare prosperità, pace e libertà. Una terra compresa tra il mare del Nord, il Portogallo a ovest, gli Stati dell’Est e la penisola italiana nel cuore del mediterraneo: confini tra Paesi, ma libera circolazione di uomini, merci, pensieri, ideali. Questa è l’Europa che fu sognata e attuata; cosa ne rimane oggi?
Proprio in virtù di tale domanda dovremmo iniziare a pensare, e dibattere costruttivamente, di parità fiscale, esercito e difesa comune, politica estera condivisa, intelligenza artificiale da inserire in ogni strato dei tessuti sociali degli Stati membri, politica monetaria in grado di aiutare le imprese negli Stati più in difficoltà. E gli esempi potrebbero susseguirsi come in un manifesto elettorale unitario, più che di partito. Affermiamo un paradosso che sa di provocazione: meglio se il sistema dei partiti non sviluppi competizione tra loro, ma i loro dirigenti si riuniscano e decidano, sulla base di un contratto per il futuro dell’Europa, chi abbia più competenze per andare a Strasburgo e Bruxelles e per quali proposte debba battersi.
Altiero Spinelli scriveva che “la civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non dev’essere un mero strumento
altrui, ma un autonomo centro di vita”. L’uomo, il politico, è colui che si assume la responsabilità per un’Europa migliore. A giudicare da come è partita la batteria dei candidati, non ci aspettiamo che a tagliare il traguardo siano i migliori.