La competizione tra grandi potenze è anche uno scontro di civiltà. Occidenti allo scontro. Anglosfera contro Europa continentale. Eurasia in frammenti. E alcuni stati-civiltà, come l’India, stanno provando a trovare il loro posto in questo caotico mondo
Nella competizione tra grandi potenze che sta scuotendo il sistema internazionale dalle fondamenta c’è tanto di Francis Fukuyama, perché il cosiddetto revisionismo di Russia, Cina & co è il ritorno di fiamma dell’imposizione coercitiva dell’universalismo occidentale sul resto del mondo, e c’è tanto di Samuel Huntington, colui che aveva teorizzato un ritorno delle identità nel secolo che sarebbe dovuto appartenere alla secolarizzazione di usi, costumi, culture, fedi e nazioni.
Alcune previsioni di Huntington sono divenute realtà. La Turchia insegue nuovamente il sogno di guidare la umma. La Russia è tornata alla cristianità orientale. La Cina ha dismesso i panni di fabbrica-scarpe dell’Occidente per svelare il suo vero obiettivo del Duemila: vendetta per il mai dimenticato Secolo dell’umiliazione. Gli Stati Uniti affrontano una crisi identitaria trainata dalla lenta scomparsa del perno WASP – White, Anglo-Saxon, Protestant – e il resto dell’Occidente, anch’esso orientato a un futuro pienamente multietnico e multiculturale, ergo postoccidentale, li segue a ruota. E infine c’è l’India, erede di una civiltà millenaria, a metà tra induismo e islam, che si ritrova davanti al bivio che determinerà il suo domani.
Il fattore Pakistan nei calcoli di Modi
La guerra in Terrasanta ha spaccato il mondo, accentuando le divisioni dentro l’Occidente e tra l’Occidente e il resto del mondo. L’India, storica paladina della causa palestinese e aspirante leader del Sud globale, non ha però approfittato del conflitto come molti analisti avevano pronosticato – e alcuni sperato –, lasciando campo libero nella battaglia delle narrazioni all’amica Russia e, soprattutto, alla rivale Cina.
Nessuna presa di posizione contro Israele. Nessuna presa di posizione a favore della Palestina. E nessun tentativo di mediazione tra i due belligeranti. Gli Stati Uniti avrebbero appoggiato un eventuale Pivot to the Holy Land di Narendra Modi, ma i loro sogni non hanno mai superato il reame onirico. Le ragioni di Modi hanno avuto la meglio sui desideri di Biden.
Il Pakistan è il primo motivo alla base della decisione di Modi – e non solo lui – di allontanare l’India dalla Palestina, una causa che pulsava nel cuore degli indiani sin dai tempi di Gandhi e di Nehru.
All’insegna della strategia delle alleanze periferiche, tesa ad aggirare l’accerchiamento mediorientale, Israele “scoprì” l’India negli anni Settanta e la aiutò, nel corso dei decenni successivi, a combattere il fratello divenuto nemesi con armi, munizioni e intelligence.
È stata la logica dell’amicus meus, inimicus inimici mei ad avvicinare originariamente Israele e India, due potenze accomunate non soltanto da un nemico – il Pakistan –, ma anche da una diffidenza di fondo nei confronti dei paesi islamici per motivi tanto identitari quanto securitari.
L’India riscopre Trimurti
Morte le generazioni di Mahatma Gandhi, Nehru e Indira Gandhi, patrocinatrici di un’India plurireligiosa e terzomondista, l’affezione alla causa palestinese è andata gradualmente scemando nella politica indiana ed è stata sostituita da un nazionalismo religioso ispirato al sionismo, di cui il Bharatiya Janata Party e la sua prole, come Modi, è solo una delle tante espressioni.
Ma questo cambio di rotta, oltre che dovuto a ragioni di realpolitik – Israele dava sicurezza, la Palestina non poteva dare nulla –, è stato ed è anche il riflesso del profondo cambiamento dell’India, che dalla fine degli anni Novanta sta vivendo un revival induista.
La destra religiosa che ha prodotto Modi vede Israele come un modello di etno-stato da emulare, ossia induizzazione delle istituzioni e delle leggi più marginalizzazione dei musulmani, nonché come uno scenario da evitare, ovvero la paura di una guerra civile a intensità variabile tra etnie e fedi e, in particolare, tra induisti e islamici.
Nell’era della storia alla riscossa e del ritorno delle identità al centro delle relazioni internazionali, l’India non può e non vuole essere uno stato diviso, sospeso tra civiltà contrapposte e popolato da anime confliggenti, ma ambisce al ruolo di potenza-guida della rinascente civiltà della Valle dell’Indo. Questa è la cornice al cui interno si spiegano gli occhi chiusi sull’aumento preoccupante delle violenze islamofobiche (e anche cristofobiche), la svolta puritana e induista di Bollyood, la pioggia di rupie per costruire e rinnovare templi indù, riformulazione della politica estera.
Non c’è spazio per la Palestina nell’India post-gandhiana
Un’India induista non può essere filopalestinese né in alcun modo a favore di cause del mondo islamico, perché la sua identità è data dalla contrapposizione con l’Islam. Islam che, nella visione dei nazionalisti indù, rappresenta una minaccia esistenziale alla loro civiltà alla luce del passato – le inequità dell’era Mogul – e del futuro – l’India, nei prossimi anni, è proiettata a diventare il paese con la più grande popolazione islamica del pianeta.
La “degandhizzazione” dell’India, di cui Modi è solo una delle tante facce – e non sarà l’ultima –, è una delle più importanti tendenze del secolo. Anche perché, condizionamento della politica estera dell’India a parte, il crescendo di tensioni tra indù e musulmani potrebbe un giorno destabilizzare il subcontinente, tra terrorismo e separatismi, spianando la strada a scenari imprevedibili e suscettibili di impattare significativamente e negativamente sulla stabilità regionale e sulla pace mondiale.