Verba manent: diritto a furor di popolo

L’assassino di Giulia Cecchettin “non avrebbe diritto alla difesa”. È questa l’ultima scempiaggine della macelleria sociale, fatta salotto, nella quale si esprime chi vorrebbe la legge del taglione. È sorta una petizione contro l’avvocato di Filippo Turetta, ex compagno e killer della ragazza, il quale ha scelto di farsi assistere dal prof. Giovanni Caruso, ordinario di diritto penale all’Università di Padova. 

“Rinunci alla difesa o, in caso contrario, l’ateneo si esprima pubblicamente dissociandosi dalla scelta inopportuna di Caruso”, si legge nella petizione. Tra le strampalate motivazioni a sostegno della richiesta, la presunta incoerenza dell’Università che da un lato conferisce la laurea postuma alla ragazza, dall’altro lascia che un suo docente assista l’omicida. Per quanto la petizione sia marginale rispetto alla ben più complessa vicenda, è una buona occasione per riflettere, ancora una volta, sullo stato del diritto nel nostro Paese e, soprattutto, sulla percezione popolare della giustizia. 

Legge “a furor di popolo”, gridata per vendicare, non per rieducare. Come si può rieducare un ragazzo che compie un crimine così efferato a vent’anni? A tale domanda, sarebbe opportuno rispondere: “E tu cosa proponi?”. A volte, di fronte a certe manifestazioni di evidente mancanza di civiltà, chi è dalla parte della ragione intellettuale si sente perfino in difetto. Si chiede, infatti, se la sua mentalità sia fin troppo aperta (princìpi del diritto a parte, che non lasciano spazio a fraintendimenti), se in fondo un po’ di qualunquismo possa essere comodo nel dialogo comune, se chi sbaglia per pagare debba subire esso stesso ciò che ha causato. Sarebbe facile, ma ci trascinerebbe in un far west pistolero e pericoloso. Senza la legge, la libertà diminuisce, contrariamente a ciò che molti pensano. Diminuisce giacché crollano i paletti entro i quali si ha la consapevolezza e la certezza delle proprie azioni, oltre i quali si ha la certezza di subire le conseguenze già previste dal diritto. In una società anarchica, non ci sarebbero quel rispetto e quella libertà che tanti decantano. 

In quel tipo di società, tuttavia, ci sarebbe spazio per i promotori e i firmatari della petizione, per quelli che insultano, scherniscono, violentano Turetta. Lì avrebbero spazio da dedicare ai propri rancorosi pensieri, ma dovrebbero anche fare attenzione: non sia mai che qualcuno di loro compia un crimine tale da ricevere su di sé l’onta che egli ha riversato sugli altri. Perché è facile inveire, quando si è protetti. Se si accetta un modello sociale e culturale, se ne accolgono anche le negatività, gli aspetti critici, quelli violenti. Filippo Turetta ha sbagliato, è un deprecabile omicida, ma non spetta a noi punirlo né giudicarlo. 

Finché non capiremo questo, saremo destinati a subire un dibattito povero, che anziché arricchire avvilisce, saremo condannati a un senso di diseducazione sociale, pur vivendo in un modello di Paese cosiddetto “progredito”. Se la legge non viene capita, può agire, essere parimenti efficace, ma non avrà mai una funzione paideutica e pedagogica.  

1 commento

  1. Non molto tempo fa ho letto “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. E’ stata una lettura non facilissima a causa di un italiano settecentesco per noi un po’ involuto. Tuttavia l’ho apprezzato come uno straordinario monumento di civiltà giuridica. Peccato però che a distanza di oltre due secoli i principi lì enunciati siano tutt’ora calpestati da tanti nostri concittadini.

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