La puntata speciale de “La lingua batte” qui alla Nuvola torna sull’annosa questione della lingua. Paolo di Paolo, che seduto al fianco di numerosi ospiti intrattiene il collegamento online con gli spettatori da casa, non ha dubbi: “Le parole sono organismi vivi”. Questa affermazione ricalca pedissequamente, ma con arguzia, la lezione di vita di Luca Serianni. L’illustre linguista, da non molto tragicamente scomparso, sosteneva che un individuo adulto indossasse migliaia di parole al giorno. Ma voi lo sapevate che brodo e zucca hanno origine germanica? E che le coccole hanno a che fare con le galline? Le galline, che fanno cò-cò. La più antica parolaccia italiana è stata scritta poco dopo l’anno 1000, in una chiesa.
Il mondo delle etimologie è come un altro universo, un altro mondo, celato al di sotto del nostro; anzi no: viviamo in una matrioška bianca e rossa di parole che si autoalimentano, si usurano, rinascono. Insomma, adesso state ad ascoltare: mi perdoneranno i lettori, anzi “Scusate il francesismo”. L’espressione, a proposito, è usata anche in Inghilterra. Tutto il mondo è paese e le parole viaggiano, anzi… Le parole volano e qui, alla Nuvola, “La lingua batte” e “La musica suona” – crediamo – tanto più che oggi è presente anche Mirkoeilcane, cantautore romano, classe 1986. Anche la musica è lingua e, anzi, uno dei numerosi ospiti, professore emerito de La Sapienza, Giovanni Solimine, afferma che il testo letterario più letto dai giovani (14-19 anni) è proprio il testo musicale. Un altro degli ospiti, Giovanni Antonelli, ricorda l’importanza che, negli anni, ha acquisito “La lingua batte”, come strumento di diffusione di una lingua sempre nuova e mai in sé stessa (sì, con l’accento, come insegnava Serianni) conclusa. E gli affiatati ascoltatori de “La lingua batte” hanno persino stilato una classifica delle parole più detestabili, da “un attimino”, fino ad “apericena”, per concludere con “piuttosto che” usato da (quasi) tutti nella detestabile accezione disgiuntiva. I puristi ottocenteschi, d’altro canto, detestavano l’uso di siccomeper introdurre una causale. Anche qui, allora, troviamo “corsi e ricorsi” – dalla vichiana memoria – linguistici. La verità, però, sembra sorprenderci: siamo noi ad abituarci alle parole, che si innestano nell’uso; le parole ci illudono… Sono la nostra dolce droga di parlanti, assuefatti all’uso sempre nuovo delle nostre pillole di senso.
Lo sa bene Massimo Roscia, autore di “Erroraio”, libretto destinato alla consultazione saltuaria, da assumersi quindi all’occorrenza, ove ci assalisse un dubbio linguistico irrisolto.
Paolo di Paolo lo ammette: prima di Serianni (per tutti coloro che lo hanno conosciuto, in fondo, esiste un A.S. e un D.S. per quanto la sua personalità abbia cambiato in tutti la visione della vita) avrebbe scommesso sul raddoppiamento della dentale sorda in collutorio, scommettendo sul celeberrimo colluttorio. C’è da chiederselo: l’errore è nascosto? Roscia sostiene, a tal proposito, che l’errore è mimetico, “fa capolino dietro un fungo”. Per fortuna che, dunque, esiste l’etimologia che ci illumina e fa sì che possiamo avvolgere il nastro… E così arriviamo a scoprire che collutorio deriva dal participio passato di colluere; collutus, sciacquare.
“Il dovere costituzionale di farsi capire” è il libro di Emanuele Piemontese, che vuole (ri)evocare il poco noto “codice di stile”, un invito rivolto alle pubbliche amministrazioni per riflettere sulla lingua da loro usata. Da tempo immemore, infatti, la lingua della burocrazia non è trasparente. La tendenza del fenomeno è in crescita e deve farci riflettere lucidamente su un fatto: quando la legge è oscura non ne risente soltanto il piano formale della lingua, ma anche quello comunicativo che dovrebbe, soprattutto in questo caso, regolare la civile convivenza del cittadino col mondo e con gli altri. Oggi le leggi sono ancora più oscure di ieri. Per Piemontese la ragione di ciò è da ricercarsi in una concatenazione di fenomeni: il calo di attenzione e di finanziamenti sul tema e il passaggio di funzioni dal Parlamento al Governo. Il Parlamento è stato esautorato dalla funzione di analizzare e proporre leggi, oggi scritte dai Ministeri e quindi da giudici amministrativi che usano un linguaggio poco accessibile ai cittadini.
Giunti quasi alla fine di questo viaggio nella lingua, rincontriamo il già citato Giovanni Solimine che dice la sua sulla teoria centrale di “Cervelli e anfibi”: ogni giorno ci passano davanti agli occhi una quantità di testi che, per quantità, corrispondono all’estensione di un romanzo. Se già questo dovrebbe condurci a un incremento lessicale e linguistico, tuttavia, stando alle parole del Professore, il fenomeno non è affatto paragonabile alla lettura in stricto sensu. “La lettura si è spalmata nell’arco della giornata, non c’è più un momento attentivo alla lettura, ma tutto è intermittenza”, afferma Solimine. Il nostro cervello è anfibio poiché deve muoversi con la stessa padronanza tanto nell’ambiente analogico, quanto in quello digitale. Insomma, ci siamo fatti ranocchi e abbiamo imparato a saltare, sguazzando nel mare magnum sterminato di parole.
Chiude Graziano Graziani che in “Alice nel paese dell’anvedi” dà una scoccata alla lingua letteraria e si concentra sul parlato dialettale di Roma. Anvedi, un omaggio a Pasolini, che sosteneva fosse questa la sua parola preferita: il romano, spogliatosi del suo tipico cinismo, scopre di essere ancora in grado di sorprendersi. Anche la nostra lingua, e PLPL lo dimostra, è sempre in grado di meravigliarci.