Con rammarico abbiamo appreso della sconfitta, nettissima, di Roma alla partita per Expo 2030. Una debacle dura, perché la capitale è stata superata perfino da Busan – che, con tutto il rispetto, probabilmente non risuona nell’olimpo delle città mondiali. Tradita ai voti perfino dagli alleati europei. Finito il rammarico e asciugate le lacrime, però, dobbiamo anche guardare all’accaduto con una lente imparziale.
Dal 1900 in poi, l’Esposizione Universale è stata sinonimo di futuro, modernità, progresso, innovazione. Parigi fece da apripista nel fiore della Belle Epoque, con un Gustave Eiffel amato da tutti gli appassionati di sviluppo urbano e arte, autore della Torre più conosciuta al mondo. Iniziò così l’era delle esposizioni: un teatro di cultura innovativa, di gusto per il meglio in chiave avveniristica.
L’Italia ha goduto del prestigio della vittoria grazie a Milano, a cui Expo 2015 ha dato gran lustro, città tuttavia già improntata al progresso e avanti rispetto alle altre realtà del Paese. Senza dubbio, poi, Milano ha saputo prendere il volo: si è fatta strada tra le big europee a colpi di turismo, cultura e impresa. La realtà, ed Expo ne è la prova, ha messo davanti agli occhi di tutti l’impopolarità di alcune scelte: se Sala opta per un ambientalismo urbano, con poche macchine, con ztl estese e biciclette diffuse, probabilmente viene messo alla gogna. Ma strizza l’occhio anche a quelle città europee che, invece, dell’innovazione e del green hanno fatto leitmotiv amministrativo.
Roma, rispetto a certi discorsi, è indietro anni luce. C’è il Colosseo, ma mancano i gladiatori. Manca, cioè, quello spirito critico e coraggioso che possa renderla un polo moderno per turisti, imprenditori e investitori responsabili; non diciamo una città stupenda, perché saremmo lapalissiani: già lo è. Tuttavia difetta di quel quid che oggigiorno è la chiave di volta per lo sviluppo. Non lamentiamoci dunque: Ryad sarà triste rispetto all’ebrezza sorniona dei romani, priva di arte, povera di monumenti, ma è avanguardista. Ha un governo assolutamente monarchico, poco incline al dibattito democratico, probabilmente perciò è più agevole nel disbrigo burocratico degli affari, complice una ricchezza largamente diffusa nei ranghi della famiglia sovrana. Ma è vincente.
Roma vive ancora in parte come la racconta Roberto D’Agostino nel suo docufilm “Roma, Santa e Dannata”; cene, salotti, politica affarista, arrivismo fine a se stesso. Riposa su un passato glorioso – la gloria prima della Dolce Vita era l’impero – del quale oggi ammira solo le ceneri. Per Expo 2030 non ha vinto il petrolio, ha vinto il progresso.