Il 1° dicembre 1923, quarant’anni prima del disastro del Vaiont, il crollo della diga del Gleno in provincia di Bergamo provocò la morte di 359 persone. Stime non ufficiali parlano di un bilancio addirittura di 500 morti. L’episodio è ormai scarsamente presente nella memoria collettiva – se non in quella delle popolazioni del territorio colpito che tutt’ora periodicamente lo commemorano – e si coglie qui l’occasione del centenario per ricordarlo.
Teatro della drammatica vicenda fu una vallata laterale della Valcamonica: la diga sbarrava il torrente Gleno, tributario del torrente Dezzo che è a sua volta tributario dell’Oglio. L’impianto era stato progettato agli inizi del ‘900 su iniziativa di un’impresa privata, la Ditta Galeazzo Viganò di Ponte Albiate (MB) interessata a disporre direttamente di energia elettrica per alimentare i propri cotonifici.
Si trattava di una diga ad archi multipli, tipologia costruttiva oggi abbandonata, appoggiata nella parte centrale su un tampone a gravità in muratura. La progettazione esecutiva ebbe luogo negli anni della prima guerra mondiale, mentre la costruzione si svolse fra il 1919 e il 1923. Ma la diga non entrò mai in funzione a pieno regime, perché durante i parziali riempimenti successivi al novembre 1921 si segnalarono perdite intorno al tampone e nella muratura della base. Nel maggio 1923 fu addirittura necessario svuotare parzialmente il bacino per intonacare e incatramare la superficie interna del muro.
Tuttavia nell’autunno di quell’anno il bacino era di nuovo pieno, anche a causa delle abbondanti piogge, e ciò rese particolarmente disastrose le conseguenze del collasso della diga verificatosi alle 7 del mattino del 1° dicembre. Il crollo interessò una lunghezza di 80 metri dei 260 di lunghezza della diga. Lo squarcio è ancora visibile a chi a piedi salga fino a quel luogo.
A subire gli effetti più distruttivi dell’imponente massa d’acqua furono gli abitati di Bueggio e Dezzo di Scalve, ma l’onda di piena proseguì attraverso la Val di Scalve provocando gravi danni ad Angolo Terme e Corna di Darfo, per poi attenuare progressivamente la sua forza d’urto fino alla Valcamonica e al vicino Lago d’Iseo.
Sul luogo del disastro si recò, due giorni dopo, il re Vittorio Emanuele III accompagnato da Gabriele D’Annunzio. Il processo che ne seguì, pur non conducendo a un responso univoco sulle cause del disastro, mise in luce numerose manchevolezze, alcune delle quali gravissime: lavori eseguiti in modo inadeguato, direzione dei lavori affidata di fatto al titolare dell’impianto privo dei necessari requisiti tecnici, varianti in corso d’opera adottate senza le necessarie verifiche e utilizzo di materiali di qualità scadente.
Ciononostante il processo a carico del titolare Virgilio Viganò e del progettista ingegner Santangelo, fra lievi condanne in primo grado e assoluzioni in appello, non portò al risultato di rendere piena giustizia alle vittime del disastro. Un copione che ben conosciamo e che troppe volte si sarebbe ripetuto.