È una copertina da temere quella realizzata da Elisa Menini. Se la si fissa per troppo tempo si rischia di perdere i contorni della propria realtà, per immergersi completamente tra la rossastra luce delle lanterne chōchin e l’odore delle ricette perdute del ristorante Kamogawa.
Si potrebbe persino pensare che Nagare e sua figlia Koishi siano proprio tra noi e la loro cucina e che, d’un tratto, ci aiutino a riportare alla mente – e al palato – quel sapore dimenticato, sepolto da una quotidianità di gusti indifferenti.
Ciò che ci circonda sono improvvisamente le pareti di un piccolo ristorante di Kiōto, alle spalle del tempio Higashi e al riparo dalle folate del monte Hiei. L’insegna non c’è ma quel posto riesce ad attrarre la nostalgia e dei viandanti che scorrono sulle pagine come gli spiriti delle lanterne, in cerca di riposo dal loro lungo cammino.
Basta guardarlo negli occhi Kuboyama Hideji per capire che non ha fatto tutta quella strada solo per trovare un vecchio amico, ma per (ri)trovare qualcosa di perso o forse per cercare di fare i conti con un futuro nuovo e spesso incerto. Nobuko invece non sa bene cosa sta cercando e, d’altronde, si chiede se è possibile trovare la felicità o perlomeno delle risposte, anche dopo 55 anni.
All’inizio lo spaesamento del lettore è come quello di Iwakura: Kamogawa cosa rappresenta? Un ristorante di famiglia? Un ufficio investigativo? Per un secondo non sembra neanche reale e pian piano le pagine prendono vita, tanto che chiudendo gli occhi si cerca di riappropriarsi di un ricordo lontano: di un pranzo preparato con amore da una madre stanca; di uno spuntino cucinato da una nonna che non c’è più o magari un piatto esotico di una meta ormai dimenticata.
L’unica cosa certa, nella nebbia che avvolge il locale senza insegna, è che è proprio quest’ultimo che sceglie i suoi ospiti e non il contrario. Un ristorante che, come viene descritto più volte nel libro di Kashiwai Hisashi, si trova solo per destino, spesso avvolti nel mistero, come per Suyako, o nella malinconia, come per Asuka.
La sesta – ed ultima – ricetta accompagna una storia che racchiude tutto quello che un piatto può rappresentare: dall’importanza della memoria, alla famiglia,; dalla fretta della vita adulta, alla calma dell’infanzia e al tepore di uno stufato dai contorni sfumati spesso lontani…
…eppure così vicini.