In questi giorni avrete sicuramente sentito parlare di Fabio Rampelli, secondo il quale andrebbe multato con sanzioni fino a 100.000 euro chiunque abusi di “forestierismo” linguistico, ossia chi utilizza termini non italiani in atti pubblici o, in generale, nella pubblica amministrazione.
L’introduzione di questo provvedimento è visto dal Vicepresidente della Camera dei deputati, nonché cofondatore di Fratelli d’Italia, Fabio Rampelli, come una misura atta alla “salvaguardia nazionale e di difesa identitaria”.
Proposta che ha fatto parecchio discutere, ed è riuscita a far storcere il naso perfino all’Accademia della Crusca, la più antica istituzione linguistica del mondo, la quale, tramite il suo Presidente Claudio Marazzini, ha tacciato come “ridicola” l’ipotesi di sanzionare l’uso delle parole straniere. Dunque… galeotta fu “la proposta di legge” e chi la scrisse (ndr. Rampelli): quel giorno più non vi leggemmo avante. Già, perchè da giorni non leggiamo altro che di lei: la mozione anti forestierismo istituzionale ed il suo primo firmatario Fabio Rampelli.
Ma andiamo per ordine e, possibilmente, facciamo un po’ di chiarezza. Iniziamo col dire che Rampelli non è nuovo ad uscite di questo tipo: risale infatti all’8 novembre 2022 il suo tweet:
“Alla Camera dei deputati italiana si parla #italiano. Prosegue la battaglia sull’utilizzo della nostra #lingua al posto dell’#inglese. Non si capisce perché il dispensatore di liquido igienizzante per le mani debba essere chiamato ‘dispenser’”.
Cinguettio che ha innescato la pronta risposta di Carlo Calenda, il quale ha ribattuto:
“Ammazza Fabio grande traguardo! Decisivo per famiglie e imprese. Dopo che hai cambiato nome al dispenser ti tocca cambiare anche Made in Italy. Una cosa tipo: fatto in Italia. Oppure ancora meglio: siamo parecchio fatti in Italia. Che descrive bene anche le vaccate che scrivete.”
Già, perchè una volta tanto dobbiamo dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Carlo Calenda quel che è di Carlo Calenda: in Fratelli d’Italia ci sono i garantisti della lingua italiana, ma al contempo si istituisce il “Ministero delle Imprese e del Made in Italy”… non è forse un po’ un controsenso?
Ma proseguiamo. Fintanto che mi sarà possibile farlo con un tono istituzionale (senza subire sanzioni) sciorineremo, cribreremo e snoccioleremo questo caso secondo la regola delle 5 W: when, where, who, what, why. Quando? 3 giorni fa. Dove? In politica. Chi? Fabio Rampelli: nato a Roma il 2 agosto 1960, ha studiato al liceo scientifico “Augusto Righi” di Roma, e, successivamente, si è laureato in architettura: una carriera quindi, quella che si evince, tutt’altro che classicista.
Allora perchè è accaduto ciò? Per il sopracitato motivo: Rampelli non è un letterato, tantomeno un linguista, e questa, di per sé, è gia una risposta. Risposta che metterei in copia a quella del Chiarissimo Professor Marazzini: “bisogna ricorrere ad una sana collaborazione con chi, della lingua italiana, si occupa da sempre: un intervento poteva essere eventualmente concordato con la nostra Accademia”.
Per intenderci, il suo non essere un tecnico della materia non implica che ciascuno non possa farsi autonomamente un’opinione, ma da figlia di studi classici ritengo che, soprattutto da parte delle Istituzioni, sia fondamentale fare un salto di qualità in più rispetto al classico “cogito ergo sum” cartesiano; certo, è doveroso dire che già il fatto che qualcuno “pensi” sia di per sé una gran cosa, ma aggiungerei necessariamente all’equazione “penso quindi esisto” un bel “so quindi parlo”.
Per parlare della lingua ci vuole una certa attitudine, e poi conoscenza, gusto, sensibilità, inclinazione naturale; perchè la lingua è camaleontica, certe volte è anche un dogma, ed è necessario altresì avere fede e fare assegnamento sulle sue continue mutazioni, talvolta perfino senza riuscire a comprendere fino infondo il perchè delle cose.
La lingua è un processo complesso, volubile, fluido, è tutto ciò che c’è di più mutevole e fuggevole. Una lingua corre veloce, non è statica, immutabile, incorruttibile, ma è modificabile, influenzabile, trasformabile. Una lingua come quella italiana è il prodotto dell’agire dei popoli, delle comunità, della collettività, della potenza creatrice e dello slancio creatore che l’uomo ha avuto nei secoli.
Non ci è stata data una lingua, l’abbiamo plasmata noi, e come tale ha fatto, fa e farà sempre parte di noi. Una lingua è il frutto dell’operato umano, del fervore di comunicabilità che fin dall’alba dei tempi è insito nell’uomo in quanto “animale sociale” (aristotelicamente parlando).
Una lingua risponde e corrisponde alle esigenze sociali, tecniche e di costume correnti, e come tale è sempre in continuo ammodernamento, adeguamento e perfezionamento.
Oscar Wilde diceva che “definire è limitare”, così come, direi io, burocratizzare e legiferare una lingua significherebbe denaturare la sua voluntas primordiale di efficacia.
Se si parla di lingua, è condizione necessaria e sufficiente parlare anche di discorsi, in quanto campo d’impiego della lingua, e ovviamente, della parola. Nel Carmide di Platone si dice che “l’anima […] si cura con certi incantesimi, e questi incantesimi sono i discorsi belli”. Si evince quindi una compartecipazione tra la lingua come mezzo e il discorso come fine, in un’equivalenza che ha come intento l’espressione (nel modo più efficace possibile) del messaggio, ma che vede al tempo stesso l’esigenza di una comunicazione chiara, diretta ed efficace per carpire la bellezza ed il senso di un discorso.
La lingua, riadattando l’aria di Giuseppe Verdi, “è mobile / qual piuma al vento / muta d’accento / e di pensiero” a significare che è suscettibile ai cambiamenti nel corso del tempo. Una lingua è soggetta al dinamismo dei nostri “mos”, ovvero usi e costumi: possiamo dire che ambivalentemente una lingua cambia con la società e la società cambia con la lingua (a seconda degli accadimenti). Per esempio, più nel concreto, la pandemia, il Covid-19 e il lockdown sono stati un punto di svolta nella nostra contemporaneità, tanto che si potrebbe delimitare, a mo di Avanti Cristo e Dopo Cristo, un periodo pre e post pandemico.
Con la pandemia abbiamo scoperto e riscoperto i modi e i mezzi per comunicare, e sono state riviste le modalità di comunicazione anche e soprattutto da parte del Governo vigente. Sono entrati prepotentemente in uso nel nostro lessico comune neologismi attinti a piene mani dai dizionari oltremanica: via quindi al green pass, hub vaccinale, cluster, contactless, lockdown, droplet, Recovery Plan, tamponi drive through, spillover… e via discorrendo. Paradossalmente, nel periodo di distanziamento sociale siamo stati più connessi col mondo, interconnessi ed intercambiabili che mai… e questo ci ha inevitabilmente influenzato, e continua a farlo tutt’ora.
Ma la verità è che, se il problema è che abbiamo smesso di tradurre, avevamo iniziato a non farlo più già da un bel po’. Basti pensare, banalmente, a quelli che sono “William e Kate” e “il Principe Harry e Meghan” sembra scontato, eppure si potrebbero dire “Guglielmo e Caterina” e “il Principe Enrico e Margherita”, così come sono detti “Elisabetta” (e non Elisabeth) e “Carlo” (non Charles), ma non usa più così.
Il motivo è che il fu rigidismo linguistico (per quanto concerne la comunicazione) sta lasciando spazio ad una ben più ampia esigenza di ottemperarsi ad un mondo fulmineo, fatto principalmente di news flash, tweet, post, informazioni istantanee, rapide e veloci, che implicano il far propri, per forza di cose, certi modus dicendi al fine di esprimere un concetto in maniera universale, veloce e che non lasci spazio a fraintendimenti.
È importantissimo comprendere questo fenomeno sociale e culturale per trovare il motivo per il quale siamo qui oggi a discutere di tutela della lingua italiana, di parole straniere e di sanzioni: al giorno d’oggi, siamo innegabilmente una generazione interconnessa dove tutto passa per i canali web, politica compresa, e dove, per garantire la trasmissibilità di un messaggio, è fondamentale adottare un linguaggio fresco, fruibile e semplice.
Ciò non implica il dover polarizzare la situazione ed arrendersi di fronte all’utilizzo di un linguaggio sempre più stringato in luogo di uno più ricco; l’utilizzo di anglicismi oramai comuni e diffusi nel nostro linguaggio non toglie nulla al patrimonio culturale della lingua italiana, ma può essere elasticamente visto come un valore aggiunto in termini di recepimento, comprensione ed efficacia del messaggio. Da questo punto di vista, tutto sta semplicemente a discrezione della persona: l’uso della parola è come un dress code; sarebbe solamente sufficiente sapere come parlare in modo opportuno e corretto in base alle determinate circostanze, senza dover necessariamente ricorrere a veti e sanzioni.