“Insieme abbiamo fatto una piccola grande rivoluzione”, così Elly Schlein ha aperto la dichiarazione di vittoria ieri sera nel comitato di Roma. Una rivoluzione che la base del PD, quella parte che ha votato, chiedeva da tempo. In poche parole, basta luogotenenti, affinché la destra non abbia il dominio dello scenario politico dei prossimi anni. Questa, quantomeno, è la speranza che si respira a sinistra.
Un risultato chiaro dopo alcune ore dall’inizio dello spoglio, ma sorprendente se analizzato nell’ottica dei mesi scorsi, nei quali Stefano Bonaccini sembrava aver già vinto, prima ancora del voto. Dal canto suo, Bonaccini esce con le ossa rotte, soprattutto perché è presidente di una regione trainante l’economia italiana, l’Emilia-Romagna, e da oggi deve rivedere al ribasso l’indice di gradimento politico nei suoi confronti. Sarebbe stato l’ennesimo capo di partito accentratore, governista, uomo di stabilità politica nelle nomine e nei governi. Tuttavia incapace di parlare a medio-lungo termine al sostrato del partito: una cospicua fetta di elettori che vede l’avanzata della destra, la prima donna premier della storia italiana provenire dalle giovanili del MSI, una maggioranza di governo piuttosto compatta e un gradimento europeo verso la leadership italiana in crescendo. Dal 2007 a oggi, la segreteria del PD è stata dominata da uomini di rappresentanza e potere. Tutti coloro che si sono susseguiti negli anni hanno avuto un ruolo di prim’ordine nei governi e nelle amministrazioni. Veltroni è stato sindaco di Roma, ministro e vicepremier; Franceschini e Bersani sono stati entrambi per tre volte ministri; Epifani, alla guida della segreteria per pochi mesi, è comunque stato lo storico segretario della CGIL; Renzi è stato premier, così come Gentiloni e Letta; Martina è stato ministro e sottosegretario; Zingaretti è stato presidente di regione.
Davanti a uomini così pesanti politicamente, Elly Schlein s’impone come prima donna alla guida del partito erede della tradizione della sinistra italiana dopo 16 anni di vita del PD. Per tutto questo tempo, i dem non sono stati in grado di eleggere – o non hanno voluto farlo – una donna, nonostante le campagne femministe, le bandiere sulla parità di genere sventolate pubblicamente e le accuse a un sistema maschilista che, fino a ieri, in verità vigeva nel PD più che altrove. La sua vittoria porta il Partito Democratico più a sinistra e lo trasforma, o perlomeno tale è l’intenzione, da partito utile alla formazione dei governi a gruppo di opposizione politica sui temi e sui valori ultra-progressisti. Si apre, così, uno spazio ulteriore al centro, utile ai riformisti ex PD, che potrebbero accogliere nuovi transfughi che rifiutano la linea dura della nuova segretaria. A destra la situazione resta pressoché immutata; addirittura l’asse di maggioranza potrebbe compattarsi ancor più. Con un’opposizione marcatamente schierata a sinistra, la dialettica politica si accende sui contrasti: immigrazione, diritti, ecologismo oltranzista.
D’ora in avanti, il nuovo cammino dei dem sarà indirizzato verso due fronti: la ricostruzione interna, che potrà avvenire solo se partirà da un quasi azzeramento degli incarichi, e l’alleanza coi 5 Stelle. Schlein a gennaio aveva aperto a un dialogo con Giuseppe Conte, che finora è rimasto, saggiamente, sulla riva del fiume ad attendere il fluire delle acque. Difficile immaginare un patto tra i due leader: se Elly Schlein ha studiato un po’ la storia del fu Partito Comunista, che per tentare di dominare gli altri partiti tendeva ad aprirsi a loro, dovrebbe stare attenta. Questo atteggiamento, oggi, con un partito da rifare e un Movimento in agguato, potrebbe costarle caro prima del previsto.